San Francesco, pacifico ma non pacifista

di Redazione, 4 ottobre 2020
 
San Francesco era pacifista? Qual è stato il rapporto tra san Francesco e il potere, e in quali termini il santo di Assisi ha dialogato con l'islam? Nel giorno di san Francesco pubblichiamo In un approfondimento della rivista "Il Timone" (2011), in cui lo storico Marco Meschini ha spiegato alcuni aspetti di san Francesco che spesso vengono tralasciati o idealizzati.
 

Quando si parla di rapporti tra mondo cristiano e mondo islamico, capita spesso che qualcuno citi il caso di san Francesco (1181-1226), più o meno in questi termini: «Si dovrebbe testimoniare il Vangelo come fece Francesco, in sottomissione e silenziosa discrezione; e quindi non si dovrebbe cercare di convertire nessuno, come san Francesco non voleva che si facesse». Ebbene, è corretta una simile visione?

Innanzitutto va detto che questa interpretazione del pensiero e dell’azione del santo di Assisi deriva in particolare da un libro notevole e influente, scritto dallo storico Giovanni Miccoli e intitolato Francesco d’Assisi. Realtà e memoria di un’esperienza cristiana. In quel volume Miccoli sostenne che Francesco voleva «realizzare una presenza cristiana priva di ogni ricerca di proselitismo». In altri termini, il santo assisiate avrebbe visto ogni tentativo di annuncio attivo del Vangelo - orientato cioè alla conversione del non cristiani — come una sorta di “ingerenza”, persino di violenza e di contrario allo spirito evangelico, intriso di sottomissione, rinuncia, povertà “assoluta” e testimonianza “pura”.

Per sostenere questa tesi Miccoli cita la Regola non bollata che al capitolo 16 recita:
 
«I frati che vanno tra gli infedeli [e in specie tra i saraceni] possono vivere e comportarsi con loro, spiritualmente, in due modi. Un modo è che non suscitino liti o controversie, ma siano soggetti, per amore di Dio, a ogni umana creatura, e confessino di essere cristiani».
 
Queste parole, certamente di Francesco, sembrano confermare quella lettura; tuttavia è necessario proseguire nel testo di quello stesso capitolo 16, che aggiunge immediatamente:
 
«Un altro modo è che, quando vedessero che piace al Signore, annuncino la parola di Dio, affinché quelli credano in Dio onnipotente, Padre e figlio e Spirito Santo, creatore di ogni cosa, il Figlio redentore e salvatore; e siano battezzati e diventino cristiani, poiché chi non nasce dall’acqua e dallo Spinto Santo, non può entrare nel regno di Dio».

Il cristianesimo integrale di San Francesco

Si tratta di parole molto chiare, che indicano al frate francescano (e, potremmo dire, al cristiano in genere) la necessità di cogliere le occasioni propizie per testimoniare esplicitamente e “attivamente” la buona novella, «affinché quelli credano in Dio onnipotente, Padre e Figlio e Spirito Santo, creatore di ogni cosa, il Figlio redentore e salvatore». Sono contenuti essenziali del Cristianesimo, ovvero la Trinità e la figura umana e divina di Cristo, morto e risorto per la salvezza dell’umanità. E si badi che si tratta proprio di quei punti che l’Islam nega esplicitamente: per l’Islam, infatti, Allah è Dio uno e indivisibile e l’idea cristiana della Trinità è un’assurdità quando non, peggio, una forma di idolatria, ovvero di abominio da distruggere.

Ed è poi vero che il Corano riconosce in Cristo un grande profeta, precursore di Maometto; ma appunto Cristo, in quest’ottica, non è nient’altro che un uomo, per quanto eccezionale (inferiore comunque a Maometto), e non può in alcun modo essere Dio. Tanto è vero che, per il Corano, Cristo non è mai morto in croce e quindi non è neppure — e tantomeno — resuscitato.

La spinta apostolica e missionaria

Sono punti essenziali di diversità tra Cristianesimo e Islam, che Francesco mostra di conoscere esattamente e di voler mettere a fuoco nell’attività missionaria del suoi frati. Lo scopo, poi, non è “semplicemente” di testimonianza, o meglio lo è nel suo senso più pieno, orientato cioè alla salvezza delle anime, che devono essere «battezzate» e «diventare cristiane», il che significa necessariamente staccarsi dal corpo dell’Islam per entrare nel corpo storico e mistico della Chiesa e di Cristo. Mi paiono parole nette, che smontano da sé il preteso “irenismo” a oltranza di Francesco: il santo di Assisi sperava e voleva che anche i musulmani (come gli altri infedeli) conoscessero la Grazia di Cristo, quella stessa che lo aveva toccato da giovane e gli aveva radicalmente trasformato l’esistenza.

Come ha ben scritto Claudio Leonardi, uno del massimi esperti mondiali della mistica cristiana medievale:
 
«Francesco non ha timore di fare proseliti: il proselitismo, cioè la conversione e l’ingresso dell’infedele tra i fedeli di Cristo e della Chiesa, è nella logica della predicazione e di ogni azione apostolica, anche se la conversione resta solo opera divina».

San Francesco tra i musulmani

Quanto abbiamo visto sin qui riguarda soprattutto il pensiero e la parola scritta di Francesco. Tuttavia egli si pose questo problema anche dal punto di vista pratico: volle cioè portare personalmente il Vangelo in terra islamica. Dopo un paio di tentativi falliti, fu nel 1219 che il santo riuscì a entrare in contatto con gli infedeli, durante la quinta crociata. L’episodio è a volte liquidato come un evento minore e secondario della sua biografia, perché Francesco rimase solo qualche giorno presso i musulmani, senza peraltro ottenere un particolare successo.
 
Ma, anche in questo caso, è una lettura riduttiva: che un uomo del Medioevo provi per tre volte a superare il “confine”, geografico e spirituale, che divideva la Cristianità del tempo dal mondo islamico; che lo faccia a suo rischio e pericolo, accompagnato solo da un altro frate (di nome Illuminato); che cerchi di parlare — e ci riesca! — con il sultano d’Egitto, ovvero con l’autorità somma del potere islamico in quel momento; e infine che torni indietro sano e salvo... beh, son tutte cose eccezionali, non secondarie, come scrisse Dante nella Divina Commedia (Paradiso 11,100-105).

Orbene, che cosa accadde? Nel giugno del 1219 Francesco e Illuminato raggiunsero il campo dei crociati che assediavano Damietta da qualche tempo. Tra la fine di quell’estate e l’inizio dell’autunno, i due frati attraversarono la “terra di nessuno” che divideva i crociati dai musulmani e chiesero di parlare con il sultano al-Kamil, discendente del grande Saladino. Sul fatto che i due si incontrarono e che, tramite interpreti, si parlarono, nessuno oggi dubita più. Ciò che divide gli storici è semmai il contenuto del loro discorso, che diventa altamente dibattuto per il suo valore simbolico.

Un dialogo intriso di testimonianza della verità

 
Non abbiamo nessun ricordo personale del santo, né cronache musulmane che ci riportino i contenuti di quel celebre incontro. Tuttavia, tra le fonti di parte cristiana ne spicca una contenuta nella biografia di Francesco scritta da san Bonaventura alcuni decenni dopo e che riporta la testimonianza di frate Illuminato. Eccone un passo decisivo. Il sultano si sarebbe così rivolto al santo:

«Il vostro Dio ha insegnato nei suoi Vangeli che non si deve rendere male per male... Quanto più dunque i cristiani non devono invadere la nostra terra?».

Niente male: al-Kamil usò il Vangelo come strumento per accusare i crociati di violenza e aggressione. Ma sentiamo la replica di Francesco:

«Non sembra che abbiate letto per intero il Vangelo di Cristo nostro Signore. Altrove dice infatti: “Se un tuo occhio ti scandalizza, cavalo e gettalo lontano da te”..., con il che ci volle insegnare che dobbiamo sradicare completamente... un uomo per quanto caro o vicino — anche se ci fosse caro come un occhio della testa — che cerchi di toglierci dalla fede e dall’amore del nostro Dio. Per questo i cristiani giustamente attaccano voi e la terra che avete occupato, perché bestemmiate il nome di Cristo e allontanate dal suo culto quelli che potete. Se pero voleste conoscere il creatore e redentore, confessarlo e adorarlo, vi amerebbero come loro stessi».
 
Insomma, in un colpo solo Francesco difese l’opera del crociati e propose al sultano la conversione. È vero che questo dialogo non è direttamente attribuibile a Francesco; tuttavia è l’unico resoconto disponibile di un testimone oculare, frate Illuminato, e non c’é un motivo specifico per non utilizzarlo, sia pure con cautela.

La prova dei carboni ardenti

Il Francesco che emerge è un santo eccezionale, che brucia dal desiderio di testimoniare in parole e opere la verità di Cristo e del suo Vangelo; e che si espone personalmente alla violenza e alla morte per suo amore. Sempre secondo le fonti cristiane, in effetti, Francesco propose al sultano anche un “giudizio di Dio” con i sufi islamici presenti: ovvero li sfidò ad affrontare i carboni ardenti per dimostrare la veridicità delle rispettive fedi. Ma quelli rifiutarono, e tra di loro vi fu forse un certo Fakhr al-Farisi, celebre consigliere del sultano, sulla cui tomba è scritto che ebbe «un famoso caso con un monaco cristiano». Sappiamo anche che a quel punto Francesco propose di affrontare da solo la prova del fuoco, ma il sultano si oppose. Il santo poté quindi predicare ai musulmani, ma — sembra — senza ottenere successo. Tornò quindi al campo crociato e poi in Italia.

San Francesco santo pacifico ma non pacifista

Francesco sapeva che i musulmani negano la divinità di Cristo, “bestemmiando” — tecnicamente parlando, non moralmente — il suo nome. Per questo si adoperò in parole e opere perché divenissero cristiani. Anche in questo caso, dunque, Francesco è il perfetto cavaliere di Dio. Pacifico, ma non pacifista. Amante, ma non succube. Innamorato di Dio, e non delle lodi del mondo.
 
Anche lo storico Franco Cardini concorda nel non restituire una figura di san Francesco come quella di un personaggio irenista e pacifista:

«Francesco d’Assisi è il prodotto più rappresentativo ed ortodosso della Chiesa delle crociate (...) Non è affatto il personaggio che generalmente ci viene presentato adesso. Non era il precursore dei teologi della liberazione. Né tantomeno fu l’araldo dl un cristianesimo dolciastro, melenso, ecologico-pacifista: il tipo che ride sempre, lo scemo del villaggio che parla con gli uccellini e fa amicizia con i lupi». (Franco Cardini, in Vittorio Messori, Pensare la stora. Una lettura cattolica dell’avventura umana, Sugarco, 2006, pp 164-165).
 
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