La corte di Strasburgo sottovaluta l’obiezione di coscienza

di Franco Olearo, 5 febbraio 2013

Il 15 gennaio 2013 la Corte di Strasburgo si è pronunciata in merito a quattro casi di obiezione di coscienza con alcune interpretazioni del diritto che rischiano di innescare effetti a catena in altri settori.

La Corte ha riconosciuto lecito il ricorso della signora Nadia Eweida, licenziata dalla British Airways, in precedenza addetta al check-in aeroportuale, sostenendo come legittimo il diritto di indossare durante il lavoro una collana con la croce o altri segni visibili della propria fede, eccetto nei casi i cui questi risultino in contrasto con le politiche aziendali di salute e sicurezza. In base allo stesso principio ha respinto il ricorso di un’infermiera alla quale era stato vietato di indossare la croce nelle ore di servizio per motivi di igiene. Una sentenza che finalmente spegne le molte polemiche sorte in merito alla libera espressione della propria fede di tipo “passivo”, cioè il semplice fatto di mostrare o esporre, come il caso del crocifisso esposto nelle aule scolastiche, risolto nel 2011.

Diversa è stata, invece, la posizione della Corte nei confronti della libertà di coscienza di tipo “attivo”. Ha negato la validità del ricorso di altri due casi: quello di Lillian Ladele, pubblico ufficiale del distretto di Islington, North London, che si era rifiutata di celebrare il civil partnership di coppie omosessuali e di Gary McFarlane che lavorava in un ufficio per consigli di coppia che aveva ritenuto contrario ai suoi principi prestare i propri servizi anche a coppie dello stesso sesso. Entrambi hanno perso il lavoro per questo motivo e un loro ricorso era stato in precedenza respinto dai  tribunali inglesi.

La Corte in questo caso ha preso atto dell’esistenza di un conflitto obiettivo fra due diritti ed ha dichiarato che in queste situazioni il tribunale inglese ha ampi margini di giudizio per dirimere la controversia, ritenendo quindi accettabile la sua decisione di privilegiare i diritti delle coppie omosessuali rispetto al diritto di agire coerentemente con la propria coscienza.

Due dei sette magistrati di Strasburgo che hanno fatto parte della commissione giudicante hanno espresso il loro dissenso nei confronti della decisione della maggioranza sottolineando che la signora Ladele è diventata ufficiale del distretto nel 1992, mentre la civil partnership è diventata legge dal 2002; nulla poteva quindi far ipotizzare a Ladele l’opportunità di non scegliere quel tipo di lavoro.  Inoltre il sindaco avrebbe potuto trovare una soluzione che consentisse a Ladele di restare in servizio in altri settori rispettando la sua coscienza: la decisone di licenziarla è stata frutto di evidenti motivazioni ideologiche.

La sentenza della Corte di Strasburgo riporta alla ribalta il tema della libertà di coscienza, solitamente connesso con quello della libertà di espressione religiosa, ma che in realtà ha un significato più ampio: perché possa esistere una sana democrazia bisogna credere nell’essere umano come centro autonomo e non condizionato di decisione, secondo la propria retta coscienza. Il negare questo principio vuol dire negare le basi della democrazia e aprirsi a forme di governo basate sulla coercizione.

In questa prospettiva la libertà di seguire la propria retta coscienza su temi eticamente sensibili si configura come un principio fondante per la democrazia mentre quello di poter accedere ai civil parnership da parte degli omosessuali è un diritto specifico.

Una corretta gestione dei servizi pubblici deve garantire il servizio richiesto dalla legge, senza necessariamente affidarlo a persone che manifestano obiezione di coscienza e che non devono venir discriminate per le loro posizioni.

La Corte di Strasburgo non si è espressa in questo modo: si è limitata a ufficializzare uno stato di conflitto fra due diritti considerati equipollenti. Perciò la sentenza in Italia è stata subito vista come un’opportunità per allargare il principio ad altri fronti: la Nuova Agenzia Radicale in un articolo del 17 gennaio, nel commentare la sentenza, ritiene naturale applicarlo per ridimensionare l’obiezione di coscienza dei medici italiani in relazione all’interruzione della gravidanza.

Nella stessa direzione va la notizia apparsa sulla rivista Tempi il 28 gennaio scorso, secondo la quale la CGIL avrebbe deciso di schierarsi in difesa dei medici non obiettori sull’aborto e a tutela del diritto delle italiane all’interruzione di gravidanza, con un reclamo al Comitato europeo dei diritti sociali del Consiglio d’Europa.

Le obiezioni di coscienza fra i medici sono obiettivamente alte in Italia (intorno al 68%)  ma forse più che indurre con la forza della legge questi dottori a svolgere pratiche abortive, converrebbe chiedersi se per caso tutte queste obiezioni non siano espressione di un sentimento diffuso che reclama soluzioni diverse a favore dei nascituri.