Stato vegetativo, quando la diagnosi è sorpassata

di Viviana Daloiso, Avvenire È Vita on line, 20 novembre 2008
La scienza non entra nelle questioni etiche. Non conosce giusto o sbagliato, bene o male. La scienza studia i fatti, e trae conclusioni oggettive. Suona più o meno così il ritornello ripetuto, anche nel nostro Paese, quando una qualche scoperta scientifica sconvolge i riferimenti dati per acquisiti aprendo la porta a discutibili pratiche come la manipolazione genetica, la clonazione, la distruzione di embrioni. Sono i progressi della scienza – si dice –, chi bada all’etica non scocci. 
Eppure oggi, mentre la vita di Eluana attende di essere interrotta, di scienza si parla singolarmente assai poco. Si discute solo di giustizia, di diritti, di libertà. La scienza no, stavolta è lei a non dover scocciare. Curioso capovolgimento della realtà, visto che i passi avanti compiuti nello studio degli stati vegetativi offrirebbero ben più di uno spunto di riflessione nella vicenda Englaro. Basterebbe, ad esempio, interessarsi di quel che sta studiando il professor Steven Laureys, giovane neurologo di fama mondiale dell’Università di Liegi, in Belgio, che insieme ad Adrian Owen – il ricercatore britannico i cui studi sono stati citati nel ricorso della Procura generale di Milano alla Cassazione – ha rivoluzionato le teorie sui pazienti nelle condizioni di Eluana, dimostrandone la conservazione di una forma di coscienza.

Professor Laureys, definiamo innanzitutto i termini della questione. Che cosa si intende per stato vegetativo?
«La coscienza ha due componenti principali: la veglia e la consapevolezza (di sé e degli altri). Lo stato vegetativo è caratterizzato dalla presenza della prima senza la seconda».  

Quindi, scientificamente parlando, è scorretto dire che questi pazienti non sono coscienti?
«La coscienza è un concetto sfaccettato. Nel caso dei pazienti in stato vegetativo non manca la coscienza, ma l’associazione tra le sue componenti. Purtroppo spesso si verificano due fraintendimenti in questo senso: i familiari o i medici non specializzati credono che se il paziente muove gli occhi o emette dei suoni – come in alcuni casi accade – sia completamente cosciente, o, all’opposto, che se non si muove e non emette alcun suono sia del tutto privo di coscienza».  

Vuol dire che anche un paziente del tutto immobile, e che non mostra alcun tipo di reazione agli stimoli esterni, può conservare un livello di coscienza superiore rispetto a uno che invece si muove ed emette suoni?
«Esatto. D’altronde queste convinzioni errate vanno ricondotte alla scarsissima conoscenza degli stati vegetativi e degli strumenti con cui oggi, finalmente, possiamo fare diagnosi più obiettive sui pazienti in queste condizioni». 

Può spiegarci a che strumenti si riferisce?
«Alla risonanza magnetica funzionale, per esempio, che tramite immagini ci permette di evidenziare la risposta emodinamica correlata all’attività neuronale del cervello o del midollo spinale; alla tomografia a emissione di positroni, una tecnica che produce immagini tridimensionali o mappe dei processi funzionali all’interno del cervello; e ancora all’elettrostimolazione ad alta intensità, tramite cui cerchiamo di registrare sensazioni di dolore nei pazienti. Si tratta di tecniche che la medicina impiega ormai in diversi campi, ma che fino a poco tempo fa non erano state utilizzate per indagare il livello di coscienza coi pazienti in stato vegetativo, in coma, o in sindrome locked-in». 

I pazienti in stato vegetativo come "rispondono" a questi test?
«Va detto che in tutti questi pazienti c’è una risposta cerebrale agli stimoli provenienti dall’esterno. Infatti si assiste – lo ripeto, in tutti i casi – a un’attivazione delle cortecce sensoriali "primarie". La differenza di caso in caso, invece, dipende da quanto queste aree di attivazione risultano disconnesse da quelle "superiori", come le aree associative, indispensabili per la consapevolezza di sé e dell’ambiente esterno. Abbiamo casi in cui questa "separazione" è definitiva, altri in cui è solo parziale, altri – sorprendenti – in cui le aree mostrano di interagire parzialmente tra loro». 

È il caso della famosa partita di tennis mentale giocata da alcuni pazienti in stato vegetativo, seguiti a Cambridge da Adrian Owen?
«Sì. In quei casi, in seguito a determinati stimoli, alcuni pazienti dimostravano l’attivazione delle stesse aree cerebrali dei soggetti sani. Un grande risultato, e non per le sue implicazioni etiche, o perché tramite quel successo si fosse arrivati a una cura per questi pazienti». 

E perché allora?
«Perché dagli anni Settanta in poi, cioè da quando si è cominciato a inquadrare clinicamente la condizione dello stato vegetativo, la scienza si è sempre affidata ai libri. Voglio dire che ci siamo seduti. Questi risultati invece dimostrano che c’è ancora molto da fare, che si possono compiere passi avanti, che c’è la speranza di approfondire la nostra conoscenza di questo campo. Abbiamo gli strumenti per farlo, oggi». 

E le sensazioni? Questi pazienti soffrono?
«Se ad attivarsi in seguito agli stimoli elettrici è solo l’area corticale, cioè quella "primaria", probabilmente no. Ma proprio in questo momento ci stiamo concentrando su come possibili interazioni tra quest’area e quelle superiori determinino una sensazione di dolore». 

Eluana Englaro, la ragazza italiana in stato vegetativo da 16 anni e per la quale è stato autorizzato il distacco del sondino che la alimenta, non è mai stata sottoposta a questi test. Crede sia possibile, oggi, decretare l’irreversibilità di uno stato vegetativo senza avvalersi di queste nuove tecniche?
«Dal mio punto di vista – che è rigorosamente scientifico, non voglio esprimere un giudizio etico su questa vicenda – credo sia un errore che un medico non specializzato faccia una diagnosi definitiva su uno di questi pazienti». 

Quanti pazienti in stato vegetativo ha visitato in questi anni?
«Più di 300. Alcuni provenivano anche dall’Italia». 

Perché le famiglie si rivolgono al centro universitario in cui opera?
«Il più delle volte cercano una risposta». 

Cosa risponde loro?
«Che qui non devono cercare un miracolo, o un risveglio, ma una diagnosi. E che la diagnosi non è una prova, ma un buon inizio». 

Cosa pensa dell’idea che, non essendo coscienti, questi pazienti debbano essere lasciati morire?
«Nuovamente, mi limito a un giudizio scientifico. Credo sia importante essere sicuri della diagnosi che facciamo su questi pazienti. Credo che prima di ogni decisione, qualunque essa sia, dobbiamo avere la certezza di un fatto, di una condizione. Credo che oggi ci siano gli strumenti per farlo. E che si possa migliorare».
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