Per questi motivi, Eluana non può morire

di Viviana Daloiso, Avvenire È Vita, 6 novembre 2008
Martedì prossimo la Corte di Cassazione dirà quella che potrebbe essere l’ultima parola sulla travagliata vicenda di Eluana Englaro. In quella data, a sezioni unite, i giudici decideranno se accettare o meno il ricorso presentato dalla Procura di Milano, secondo cui la sentenza che ha autorizzato il distacco del sondino che nutre e idrata la giovane lecchese non avrebbe chiarito due questioni fondamentali: primo, se lo stato vegetativo di Eluana sia davvero irreversibile; secondo, se le volontà della ragazza fossero davvero quelle accertate nel corso del processo. Due condizioni stabilite come imprescindibili dalla stessa Cassazione, il 16 ottobre del 2007. E a cui si aggiungono altri importanti argomenti, emersi nel corso del dibattito degli ultimi mesi, che qui vogliamo riepilogare.

Eluana non è «un vegetale»
Della triste storia di Eluana Englaro sappiamo tutto: l’incidente, la disperazione della famiglia, le battaglie giuridiche e mediatiche del padre. Eppure conosciamo poco della sua condizione. Sappiamo che è in stato vegetativo da 16 anni, per esempio, eppure in pochi hanno spiegato che questa situazione non è uguale al coma: Eluana, cioè, «presenta un regolare ciclo sonno-veglia, respira autonomamente, non è attaccata a nessun macchinario» (Matilde Leonardi, responsabile Neurologia alla Fondazione Irccs Carlo Besta di Milano, «Avvenire» 11 settembre).
Insomma, non ci sono "spine" da staccare. Sappiamo che è alimentata e idratata attraverso un sondino naso-gastrico, accudita e curata esemplarmente, ma queste azioni non sono assimilabili a "trattamenti terapeutici", né tanto meno ad accanimento: «Acqua e cibo sono i supporti basilari forniti a ogni paziente, ai disabili, ai malati di Parkinson, Sla e Alzheimer in fase avanzata, o ai neonati se incapaci di nutrirsi spontaneamente» (Giuliano Dolce, direttore scientifico della clinica Sant’Anna di Crotone, 12 luglio).
Sono necessari al suo sostentamento, non alla sua guarigione. Sappiamo che una sentenza ha decretato che le venga tolto quel sondino, che possa essere "lasciata morire", eppure nessuno aggiunge che la morte per fame e per sete può essere preceduta da una lunga agonia (anche più di 15 giorni), proprio come accadde a Terri Schiavo.

Eluana non è «irreversibile»
Lo stato vegetativo non è una malattia terminale e i pazienti in questa condizione, come Eluana, «sono vivi a tutti gli effetti, il loro cervello produce ormoni, fa pulsare il cuore» (Mario Guidotti, ospedale Valduce di Como, 25 luglio). Non a caso la stessa sentenza della Corte d’Appello di Milano raccomanda che Eluana, una volta tolto il sondino, sia sedata e che le vengano tenute bagnate le mucose, affinché non soffra. Lo stato vegetativo è invece una forma di disabilità estrema, in cui sussiste un difetto di coscienza: «Non è una malattia che porta a morte. In questi casi interrompere l’alimentazione non ha alcun fondamento medico» (Rodolfo Proietti, docente di Anestesia e rianimazione all’Università Cattolica di Roma, 20 luglio).
Inoltre lo stato vegetativo non può mai essere definito irreversibile, o permanente: lo ha stabilito la conferenza di Londra del 1996, quando neurologi e ricercatori di tutto il mondo si confrontarono su questa patologia, i cui decorsi possibili sono ancora sconosciuti (oggi oltre il 50% dei pazienti in questo stato riacquistano, anche dopo anni, un margine seppur minimo di coscienza). E lo hanno confermato gli studi più recenti: «Attraverso la risonanza magnetica funzionale ci siamo resi conto che, alla richiesta di compiere mentalmente delle azioni elementari, le aree cerebrali che si attivano nei pazienti in stato vegetativo e nei soggetti sani sono esattamente le stesse. Un fatto fondamentale per due ragioni: il paziente in stato vegetativo dimostra di essere cosciente (e questo non era mai stato provato prima) e, ciò che è sbalorditivo, di comprendere il senso delle parole che gli vengono rivolte, addirittura di conservare una memoria delle azioni che erano normali nel suo passato» (Adrian Owen, responsabile dell’Unità neurologica dell’Università di Cambridge, 3 agosto).

Chi la lascerà morire?
Il decreto della Corte d’Appello di Milano presenta almeno tre aspetti problematici su cui è bene tornare alla vigilia della decisione della Cassazione. In primo luogo, autorizza il tutore di Eluana (il padre) a interrompere idratazione e alimentazione artificiali, ma senza alcun obbligo di dare esecuzione a quanto si consente. Motivo per cui la Regione Lombardia, per esempio, ha già rifiutato la disponibilità di eseguire quella sentenza in una delle sue strutture. Il Codice deontologico e il giuramento professionale dei medici, d’altra parte, prescrivono che il personale sanitario si occupi di curare i pazienti, non di causarne la morte. E ancora, come ribadito dalla stessa Regione Lombardia nella sua risposta alle richieste di Beppino Englaro, ospedali, cliniche e hospice sono luoghi in cui si riconosce la dignità della vita fino all’ultimo giorno: «L’accoglienza di Eluana in un hospice snaturerebbe completamente il motivo per cui è nato: quello di sorreggere una vita in fase terminale con la palliazione e il sollievo dei sintomi. Gli hospice sono essenzialmente luoghi di vita, non di morte, dove le persone malate vengono sostenute nel vivere la vita che gli rimane nel modo più dignitoso possibile» (Giovanni Battista Guizzetti, responsabile del reparto Stati vegetativi al Centro Don Orione di Bergamo, 4 settembre).

Quali «volontà»?
Altro capitolo sui cui occorre fare chiarezza è quello delle volontà "dedotte" di Eluana. Che la Corte d’Appello di Milano ha ricostruito durante il processo, visto che la ragazza non le ha mai espresse in modo manifesto e inequivoco. Ora, se anche nel nostro ordinamento esistessero elementi che consentano di ritenere che un soggetto possa rivendicare un "diritto alla morte" («Per quanti sforzi io faccia, non li trovo. Mentre al contrario troviamo sempre e soltanto il principio del "favor vitae", del diritto alla vita», Vincenzo Nardi, avvocato generale presso la Corte di Cassazione, 19 luglio) la stessa Suprema Corte recentemente, rispondendo al ricorso di un testimone di Geova, è stata chiara: «Nell’ipotesi di pericolo grave e immediato per la vita del paziente il dissenso del medesimo deve essere oggetto di manifestazione espressa, inequivocabile, attuale, informata». E ancora: «L’efficacia di un dissenso "ex ante" privo di qualsiasi informazione medico-terapeutica deve ritenersi altrettanto impredicabile, sia in astratto che in concreto, qualora il paziente, in stato di incoscienza, non sia in condizioni di manifestarlo pienamente». (sentenza n. 23676 della Terza Sezione Civile, 15 settembre 2008).
Queste condizioni valgono (e devono valere) anche per Eluana Englaro. Ora più che mai.
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