L'indisponibilità della vita

di Francesco D'Agostino, Avvenire 7.10.08
È davvero esasperante l’insistenza con la quale alcuni giuristi, anche di fama, cercano di riaprire un discorso sull’indisponibilità della vita, su di un principio, cioè, che molti ritenevano assolutamente consolidato, almeno nella cultura giuridica recente, anche per le tante dirette e indirette indicazioni fornite in tal senso dalle diverse Carte dei diritti (a partire da quella dell’Onu del 1948), dalla stessa nostra Costituzione e più in generale da tutto il nostro ordinamento giuridico. Evidentemente non è più questa l’epoca in cui si possa continuare a ritenere autoevidenti i principi fondamentali del diritto.

Autonomia della persona
Di indisponibilità della vita, sostengono alcuni, si dovrebbe parlare solo per escludere la possibilità di disporre della vita altrui. La propria vita, invece, sarebbe pienamente disponibile, quando in tal senso dovesse orientarsi la nostra 'autonomia'. Del resto, non è forse vero che l’articolo 32, 2° comma, della Costituzione proibisce ogni terapia coercitiva e impone a un’eventuale legge che renda obbligatorio un qualsiasi trattamento sanitario di non «violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana»? La prima cosa che si deve fare, cioè, quando si voglia rispettare una persona, sarebbe rispettarne l’autonomia, anche quando questa autonomia giungesse a concretizzarsi in scelte tragiche, come la rinuncia a trattamenti terapeutici salvavita, o, per dirla in modo più concreto, in richieste di eutanasia passiva.

Le decisione autonome lesive della dignità
L’errore di tutti coloro che si muovono in una prospettiva libertaria (e non liberale!) come quella sopra riassunta è antico ed è stato mille volte rilevato, già a partire da Kant (ma inutilmente, perché quasi mai i libertari si preoccupano di prendere atto delle critiche che vengono loro rivolte e di rispondere a esse). L’errore consiste nel ritenere che qualsiasi decisione, purché autonomamente assunta, non possa che essere sempre rispettosa dei valori della 'persona'. Non è così, né in una prospettiva esclusivamente morale (che però lascio al di fuori di queste considerazioni), né in una prospettiva strettamente giuridica. Il diritto, infatti, considera come vuote di valore (e a volte sanziona, anche gravemente) decisioni perfettamente autonome, ma gravemente lesive della dignità e del rispetto che comunque è doveroso avere nei confronti del corpo. Una persona può, in piena lucidità e autonomia, tentare il suicidio (e allora il tentativo di salvarlo sarebbe da ritenere illecito!), può vendere se stesso prostituendosi, può decidere di vendere i propri organi a fini di profitto, può decidere di auto mutilarsi, può perfino – anche se sembra incredibile! – vendere la propria libertà, accettando uno stato di servitù volontaria. Se si arriva a ritenere non solo lecita, non solo insindacabile, ma addirittura rispettosa della persona una decisione che abbia per oggetto né più né meno che la propria morte, si dovrebbe per coe-renza legittimare tutte le pratiche cui sopra abbiamo fatto cenno, in quanto possiedono un rilievo esistenziale di gran lunga minore. È peraltro quello che pensano alcuni bioeticisti, che portano con indubbia coerenza la propria ideologia libertaria fino agli estremi limiti.

La disperazione che porta a scelte estreme
La richiesta di morte, ancorché 'dignitosa', da parte di un malato non è mai esercizio del diritto di governare autonomamente la propria esistenza, come ritengono i libertari, quanto piuttosto la prova dello stato di abbandono in cui versa quella persona e della sua conseguente disperazione (nel senso proprio del termine: è 'disperato' colui al quale è stata sottratta la speranza non della guarigione, ma di poter continuare a dar senso alla propria vita). Ecco perché non è corretto vedere nell’articolo 32 della Costistuzione il fondamento di potenziali normative aperte all’eutanasia (nulla era più lontano dalla mente dei nostro Costituenti). La Costituzione riconosce il diritto negativo del malato a sottrarsi ad una terapia, ma saggiamente non trasforma questo no nel diritto positivo ad ottenere prestazioni eutanasiche (attive o passive, poco rileva). La scelta del malato di rifiutare alcune pratiche terapeutiche non è affatto detto che sia una scelta di morte; egli può dir loro di no, perché le percepisce come vero accanimento, o perché vuole affidare il suo destino ad altra terapia più dolce e meno invasiva o abbandonare il decorso della sua malattia ai ritmi della «natura» o ai disegni della «Provvidenza». Auguriamoci che il Parlamento, se giungerà a votare una legge sulla fine della vita umana, sappia capire che il diritto del malato a rifiutare una cura viene molto, molto dopo quello, davvero fondamentale, che ogni malato possiede di essere assistito e 'consolato' (cioè di non esser mai 'lasciato solo') fino alla fine.
Tags: