di Fulvio Scaglione, Avvenire 20 aprile 2007
Un mondo senz'armi: non è il sogno di tutti? Certo. Ma chi vuol stare con i piedi per terra sa che i sogni possono anche produrre disastri e che nella vita reale le forze armate e i corpi di polizia hanno una ragion d'essere che attiene a un altro e non meno importante sogno: la sicurezza e il benessere di tutti.
Le armi esistono non perché siamo tutti cattivi ma perché ci sono anche i cattivi, e contenerli a parole non sempre è possibile.
La classifica delle spese militari nel 2005
Non per questo, però, fanno meno impressione i dati sulle spese militari, che raggiungono cifre difficili persino da scrivere: 1.018 miliardi di dollari nel 2005, pari al 2,5% del Prodotto interno lordo mondiale. Riassume la Civiltà Cattolica, che riprende i dati nel suo editoriale: «I Paesi con reddito elevato… spendono ogni anno in media dieci volte di più per le spese militari rispetto alle spese per lo sviluppo e la cooperazione».
Primi assoluti gli Stati Uniti, che nel 2004 hanno investito nel settore 455,3 miliardi di dollari; poi, comunque staccatissimi, la Cina (161,1 miliardi), l'India (81,8), la Russia (66,1), la Francia (52,2), la Gran Bretagna (46,2). L'Italia è nona (34,5 miliardi di dollari), decima l'Arabia Saudita (29,1), quattordicesimo l'Iran (18,5) e così via.
La spesa militare in rapporto alla potenza economica
Come tutti i dati, anche questi vanno non solo letti ma anche interpretati. Quella è la graduatoria assoluta. Se si facesse quella relativa, alla luce della potenza economica dei diversi Paesi, si scoprirebbe che in testa c'è la Russia. Il primato degli Usa, inoltre, va considerato anche alla luce del fatto che Washington è l'unica capitale ad assumersi con regolarità gli oneri di una difesa "globale", sia in proprio sia all'interno di alleanze internazionali come la Nato. Non lo fa per beneficenza, e spesso non lo fa nemmeno bene, ma lo fa e spesso ci torna comodo: come in Afghanistan, dove sono le truppe Usa (con quelle inglesi e canadesi) a battersi con più intensità contro i rigurgiti talebani e criminali; come in Europa e altrove durante la Guerra Fredda.
Cina, India e Arabia Saudita hanno molte ambizioni ma agiscono solo su scala regionale.
La tendenza agli armamenti è precedente al terrorismo
Se poi il riarmo ci indigna, non diamo la colpa al terrorismo islamico, perché la tendenza al rialzo delle spese militari (calate dopo la fine dell'Urss) risale a metà degli anni Novanta, cioè ben prima delle Torri Gemelle, dell'Afghanistan e dell'Iraq che l'hanno poi semmai inevitabilmente confermata. E poi bisogna distinguere. Un conto sono le spese per la difesa nazionale, un altro quelle del commercio internazionale di armi. Comprare o costruire armi per difendersi (e quindi, nella gran parte dei casi, senza usarle) è una pratica criticabile ma che non fa danni. Commerciare armi, speculando sui conflitti, magari incentivandoli o non facendo nulla per sopirli, è ben altro. Si potrebbe quindi cominciare a intervenire sulla seconda parte del problema.
Nella pratica le armi leggere fanno più danni delle armi di distruzione di massa
Quando si parla di armi il pensiero corre subito agli ordigni di distruzione di massa o alle bombe. Ma nel mondo circolano 700 milioni di armi leggere (fucili, pistole, mitragliatrici, lanciagranate) e le guerre più cruente sono combattute solo con esse, dal Congo (3 milioni di morti) al Ruanda (1 milione).
Senza troppo sognare, dunque, ma rinunciando in solido a una piccola quota di profitti, si potrebbe vendere meno fucili e pistole e così salvare milioni di vite. Magari approvando quel Trattato internazionale per rendere più trasparente il commercio e comunque vietarlo ai Paesi sotto embargo e a quelli che violano i diritti dell'uomo. Se ne parla da anni, ora bisogna muoversi.
Le armi esistono non perché siamo tutti cattivi ma perché ci sono anche i cattivi, e contenerli a parole non sempre è possibile.
La classifica delle spese militari nel 2005
Non per questo, però, fanno meno impressione i dati sulle spese militari, che raggiungono cifre difficili persino da scrivere: 1.018 miliardi di dollari nel 2005, pari al 2,5% del Prodotto interno lordo mondiale. Riassume la Civiltà Cattolica, che riprende i dati nel suo editoriale: «I Paesi con reddito elevato… spendono ogni anno in media dieci volte di più per le spese militari rispetto alle spese per lo sviluppo e la cooperazione».
Primi assoluti gli Stati Uniti, che nel 2004 hanno investito nel settore 455,3 miliardi di dollari; poi, comunque staccatissimi, la Cina (161,1 miliardi), l'India (81,8), la Russia (66,1), la Francia (52,2), la Gran Bretagna (46,2). L'Italia è nona (34,5 miliardi di dollari), decima l'Arabia Saudita (29,1), quattordicesimo l'Iran (18,5) e così via.
La spesa militare in rapporto alla potenza economica
Come tutti i dati, anche questi vanno non solo letti ma anche interpretati. Quella è la graduatoria assoluta. Se si facesse quella relativa, alla luce della potenza economica dei diversi Paesi, si scoprirebbe che in testa c'è la Russia. Il primato degli Usa, inoltre, va considerato anche alla luce del fatto che Washington è l'unica capitale ad assumersi con regolarità gli oneri di una difesa "globale", sia in proprio sia all'interno di alleanze internazionali come la Nato. Non lo fa per beneficenza, e spesso non lo fa nemmeno bene, ma lo fa e spesso ci torna comodo: come in Afghanistan, dove sono le truppe Usa (con quelle inglesi e canadesi) a battersi con più intensità contro i rigurgiti talebani e criminali; come in Europa e altrove durante la Guerra Fredda.
Cina, India e Arabia Saudita hanno molte ambizioni ma agiscono solo su scala regionale.
La tendenza agli armamenti è precedente al terrorismo
Se poi il riarmo ci indigna, non diamo la colpa al terrorismo islamico, perché la tendenza al rialzo delle spese militari (calate dopo la fine dell'Urss) risale a metà degli anni Novanta, cioè ben prima delle Torri Gemelle, dell'Afghanistan e dell'Iraq che l'hanno poi semmai inevitabilmente confermata. E poi bisogna distinguere. Un conto sono le spese per la difesa nazionale, un altro quelle del commercio internazionale di armi. Comprare o costruire armi per difendersi (e quindi, nella gran parte dei casi, senza usarle) è una pratica criticabile ma che non fa danni. Commerciare armi, speculando sui conflitti, magari incentivandoli o non facendo nulla per sopirli, è ben altro. Si potrebbe quindi cominciare a intervenire sulla seconda parte del problema.
Nella pratica le armi leggere fanno più danni delle armi di distruzione di massa
Quando si parla di armi il pensiero corre subito agli ordigni di distruzione di massa o alle bombe. Ma nel mondo circolano 700 milioni di armi leggere (fucili, pistole, mitragliatrici, lanciagranate) e le guerre più cruente sono combattute solo con esse, dal Congo (3 milioni di morti) al Ruanda (1 milione).
Senza troppo sognare, dunque, ma rinunciando in solido a una piccola quota di profitti, si potrebbe vendere meno fucili e pistole e così salvare milioni di vite. Magari approvando quel Trattato internazionale per rendere più trasparente il commercio e comunque vietarlo ai Paesi sotto embargo e a quelli che violano i diritti dell'uomo. Se ne parla da anni, ora bisogna muoversi.
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