La pillola abortiva non va

di Eugenia Roccella, Avvenire 28 giugno 2007
Un crollo. Non si può definire altrimenti la vertiginosa discesa del ricorso all’aborto chimico nella regione Toscana, leader della campagna a favore della pillola Ru486.
I dati degli ultimi mesi, richiesti dal capogruppo Udc in Consiglio regionale Marco Carraresi, sono espliciti: dai 48 interventi di maggio 2006 si è passati ai 2 dello stesso mese di quest’anno, con una diminuzione del 96%. Eppure, secondo i promotori della Ru, si tratterebbe di un metodo più semplice e meno doloroso per interrompere una gravidanza; non si capisce, dunque, come mai le donne non vi ricorrano in massa.

Tutto il peso è sulla donna
La verità è che abortire con la pillola è un massacro fisico e psicologico, e che gli unici interessati a promuoverla sono i medici stanchi di praticare interventi, e i politici che vogliono modificare la legge 194. Con la pillola, infatti, l’aborto avviene fuori dall’ospedale, ed è la donna che deve gestire l’intero processo; questo alleggerirebbe il carico dell’organizzazione sanitaria, ma ridurrebbe le garanzie previste dalla legge italiana sia per la donna che per il bambino. Una volta che la pratica dell’aborto chimico a domicilio si fosse diffusa, la sinistra radicale chiederebbe di adeguare le norme alla situazione di fatto, esattamente come è accaduto in Francia, ottenendo di stravolgere la legge attuale.

Tradite dalla pillola. Una testimonianza
Ci sono, dunque, interessi politici e interessi corporativi nella battaglia per l’introduzione della Ru486, ma non c’è nessun interesse da parte delle donne. Sull’edizione inglese della rivista femminile Marie Claire una testimonianza lo spiega chiaramente, a partire dal titolo: «Tradita da una pillola». Non sono i dolori, benché acutissimi («non ero preparata alle lancinanti fitte al ventre»), a spaventare la donna che racconta la propria esperienza, né l’emorragia che dura 14 giorni, e nemmeno le bolle che le copriranno il collo e le spalle dopo l’assunzione del misoprostol; sono la depressione e il disordine emotivo e mentale sopraggiunti dopo l’aborto, la difficoltà espressiva, l’estrema stanchezza che le impedisce qualunque attività. Secondo i medici, si tratta di effetti collaterali che colpiscono circa una donna su 3, ma che vengono sottovalutati, e abitualmente non registrati negli studi. Nonostante gli antidepressivi, questo stato di incapacità e confusione è durato circa 9 mesi, e pare sia dovuto al caos ormonale che il farmaco crea nel corpo femminile.

Ragioni dell’insuccesso
I dati europei sull’uso della pillola abortiva, del resto, parlano chiaro: se non ci sono pressioni da parte dell’organizzazione sanitaria e dei governi, la Ru486 non ha successo. Anche senza contare gli eventi avversi e gli effetti collaterali, chi potrebbe preferire un metodo il cui rischio di mortalità è 10 volte più alto dell’intervento chirurgico, con una percentuale di fallimento significativamente maggiore (se non si usano trucchi contabili), e che dura almeno 15 giorni invece di un quarto d’ora? A questo bisogna aggiungere i dolori, le nausee, i crampi, e la necessità di controllare continuamente l’emorragia da sole, anche se si è ricoverate in ospedale: una signora di Trento a cui i medici avevano consigliato l’aborto chimico, ha raccontato di essere stata invitata a verificare che l’embrione fosse stato espulso, cercandolo personalmente nel wc. L’orrore trasformato in pratica quotidiana, in banale routine medica.

La verità si fa strada nonostante i media
Ma anche se sulla grande stampa non sono mai passate nemmeno le notizie sulle 15 donne morte, pian piano la verità si è fatta strada, e il mito dell’aborto facile si è sgonfiato. La sperimentazione a Torino è stata sospesa dagli stessi politici che l’avevano appoggiata; la diffusione tramite importazione diretta nei singoli ospedali, con l’appoggio di qualche assessore regionale alla Sanità (come il toscano Enrico Rossi), è rallentata, e il numero degli aborti chimici scende vertiginosamente.
Di fronte a questo fallimento, c’è chi non si rassegna. L’Aduc, per esempio: l’associazione di consumatori di area radicale continua a ripetere instancabilmente che la Ru486 arriverà in Italia in autunno, e spaccia una revisione dei dosaggi autorizzata in sede europea come un primo passo verso la registrazione nel nostro Paese. Non è così, e non è stato solo Avvenire a smentire la falsa notizia, ma lo stesso Ente europeo per il controllo sui farmaci.

Nonostante tutto, c’è chi ne aspetta l’introduzione in Italia
Come non detto: nell’edizione toscana di Repubblica del 21 giugno si ripete ostinatamente la litania sulla pillola che sarebbe disponibile in autunno, e lo si fa all’interno di un articolo in cui si esalta la sperimentazione della Ru486 negli aborti tardivi. Anche i ginecologi che hanno giocato tutta la loro visibilità sull’aborto chimico, infatti, non possono rassegnarsi, e a Pontedera il dottor Srebot annuncia con toni entusiatici di aver evitato il taglio cesareo a una paziente che doveva abortire, grazie alla Ru486. Si tratta di un caso di interruzione di gravidanza alla 19ª settimana, quindi oltre il limite del terzo mese, motivato da una malformazione fetale. A parte i numerosi interrogativi sulla correttezza procedurale (l’importazione diretta di farmaci non autorizzati dovrebbe seguire alcune regole, che per la Ru486 vengono costantemente scavalcate), ci sono quelli sulla effettiva necessità della pillola.
Il farmaco infatti, viene adottato negli aborti tardivi in via sperimentale, e i suoi reali benefici sono ancora tutti da dimostrare: è impossibile provocare l’espulsione del feto con la Ru486, dunque appare difficile che il suo uso sia stato così risolutivo. L’impressione è che si cerchi disperatamente di salvare la pillola abortiva dall’oscurità in cui è precipitata, e di farle una buona pubblicità: con un po’ di fantasia, chissà quanti altri usi se ne possono fare.