Fides.org 11 marzo 2006
Sono passati quasi 40 anni dall’enciclica di Paolo VI Sacerdotalis Coelibatus in cui il Papa, raccogliendo gli insegnamenti del Concilio Vaticano II, riaffermava l’opportunità del celibato dei sacerdoti e invitava la Chiesa ad un’approfondita riflessione sui motivi teologici e spirituali che animano questa pratica secolare della Chiesa. In questi anni ciò che auspicava il Papa è avvenuto.
Il dubbio sul celibato dei sacerdoti nasce solo negli anni '60
Allo stesso tempo le obiezioni e le polemiche hanno continuato a farsi sentire. Quando uscì l’enciclica erano gli anni’60 contraddistinti da un clima sociale saturo di erotismo. Nella mente di molti si era insinuato il dubbio sulla bontà del celibato ecclesiastico. Nacque un dibattito in cui tutti si sentivano autorizzati ad intervenire, a proposito come a sproposito, non esclusi i mass media che alimentarono notevolmente il miraggio che il matrimonio sacerdotale avrebbe dato una svolta alla vita della Chiesa.
Le principali obiezioni che sono state mosse al celibato dei sacerdoti si potrebbero così riassumere: Gesù non lo avrebbe imposto ma solo proposto; le ragioni del celibato vengono spesso interpretate come eccessivo pessimismo verso la “carne”; non tutti gli aspiranti al sacerdozio avrebbero il carisma per vivere il celibato; la sua obbligatorietà è causa di rarefazione nelle vocazioni; il celibato è causa di disordini e infedeltà; il celibato determina una condizione innaturale che danneggia la persona umana. Chi muove queste obiezioni vede il celibato come una costrizione che la Chiesa latina impone ai suoi sacerdoti e così facendo riduce il tutto ad una questione puramente disciplinare che andrebbe ripensata alla luce della mentalità attuale.
Un argomento cruciale per tutti i cristiani, non una semplice questione organizzativa
Questo tipo di obiezioni manifestano come quella del celibato sacerdotale non è una questione “particolare” che riguarda il clero latino. In realtà è un argomento cruciale per tutti i fedeli cattolici e più in generale per tutta l’umanità: infatti nessun cristiano può pensarsi tale senza la Chiesa e di questa Chiesa i sacerdoti sono elementi essenziali.
Accostarsi a questo tema considerandolo un semplice problema di disciplina ecclesiastica, di organizzazione e di regolamento, sarebbe riduttivo. Affrontare la questione rifacendosi esclusivamente ad un’impostazione sociologica, ad un ripensamento alla luce dei cosiddetti “tempi che cambiano” non appare sufficiente per cogliere la complessità di questa pratica ecclesiastica. La posta in gioco è ben più alta: la riflessione sul celibato dei sacerdoti è, a ben vedere, una riflessione sull’argomento più ampio della natura dell’amore umano e del suo rapporto con l’amore divino.
Il Magistero e gli approfondimenti sul significato del celibato
La riflessione del Magistero su questo tema è stata sempre molto attenta ma, negli anni recenti, anche in luogo dei cambiamenti della società e delle differenti sfide del pensiero moderno, ha raggiunto un livello di notevole approfondimento e maturazione.
Questa rinnovata riflessione è indubbiamente stata avviata dal Concilio Vaticano II i cui insegnamenti, come abbiamo accennato, sono stati poi ripresi nell’enciclica Sacerdotalis Coelibatus di Paolo VI. Successivamente il Sinodo dei vescovi del 1971 può essere considerato un momento cruciale che ha definitivamente sancito l’opportunità del celibato sacerdotale aprendo anche ad una ricerca teologica della ricchezza di questa pratica ecclesiastica, ricchezza poi sempre più approfondita dai successivi documenti del Magistero. La Chiesa è tornata ancora in modo approfondito sul tema, nel Sinodo dei Vescovi del 1990. L’esortazione apostolica di Giovanni Paolo II, Pastores dabo vobis, del 1992, che raccoglie gli insegnamenti del Sinodo, rappresenta un ulteriore discernimento e chiarificazione delle motivazioni profonde della scelta celibataria per i sacerdoti della Chiesa cattolica.
Il sacerdote è alter Christus: la verginità di Cristo è il fondamento della verginità del sacerdote
Il Magistero in sintesi ha riconosciuto che il sacerdote non è e non sarà mai un semplice “funzionario”, egli è un alter Christus e vive un’unione speciale con Lui. La verginità di Cristo è il fondamento della verginità del sacerdote: è il cammino sicuro che lo fa a Lui assomigliare in tutto. Il celibato è quindi una componente essenziale della vocazione del sacerdote la cui fonte è Cristo, l’unico a poterne dare il vero significato.
Per avere una corretta visione d’insieme del problema del celibato occorre perciò andare a ricercare quali siano le motivazioni di questa scelta a partire da due grandi fonti: da una parte gli insegnamenti di Gesù nel Vangelo e dall’altra quali sono state le posizioni e i chiarimenti del Magistero recente della Chiesa.
Il celibato nel Vangelo
Il primo dato che bisogna registrare accostandosi al Vangelo è che Gesù non si è sposato, ha svolto la sua predicazione lasciando ogni cosa: il suo villaggio, la sua famiglia, ha scelto volontariamente la povertà, ha vissuto la sua vita “pubblica” accettando l’ospitalità di coloro che gliela offrivano senza avere nulla di proprio. Il punto fondamentale è capire in che termini Egli abbia proposto una scelta del genere ai suoi discepoli.
I momenti principali in cui Gesù parla ai suoi di “distacco dalla famiglia” e dagli affetti terreni per la sua sequela sono: “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (Lc 14,26) oppure “In verità vi dico, non c'è nessuno che abbia lasciato casa o moglie o fratelli o genitori o figli per il regno di Dio,che non riceva molto di più nel tempo presente e la vita eterna nel tempo che verrà” (Lc 18,29). Da questi brani emerge come la chiamata di Gesù aveva il carattere di assolutezza, tanto che la sequela, per cooperare alla missione di Gesù, esigeva dai chiamati la rottura di tutti i legami familiari e quindi anche di quello matrimoniale.
Il significato spirituale della rinuncia al matrimonio
A queste due affermazioni di Gesù se ne aggiunge un’altra: “Vi sono eunuchi che dal seno materno sono stati generati così, e vi sono eunuchi che vi sono stati resi tali dagli uomini, e vi sono eunuchi che vi sono resi tali essi stessi per il regno” (Mt 19,12). Gesù pronuncia queste parole perché qualcuno, non capendo appieno il suo discorso sull’indissolubilità del matrimonio, aveva affermato: “se le cose stanno così non conviene prendere moglie”. È come se Gesù volesse spiegare meglio il significato spirituale della rinuncia al matrimonio. Infatti la parola eunuco è molto forte e sottolinea che la scelta di seguire Gesù nella sua missione (per il regno), può raggiungere un livello tale da avere come effetto rendersi volontariamente “incapaci” di stabilire un legame matrimoniale con qualcun altro.
La formazione della comunità degli apostoli
È da osservare che il motivo del distacco da legami familiari inteso da Gesù, ha una doppia motivazione: “Per stare con Lui e per mandarli a predicare” (Mc 3,14). Cioè la rinuncia ai legami familiari, oltre a creare una disponibilità alla missione di evangelizzare (predicare), portava alla convivenza con Gesù e con altri discepoli (stare con lui). Il servizio del Regno assume quindi l’aspetto di un servizio “fatto insieme”. La proposta della rinuncia ai legami familiari nel testo evangelico non ha solo la caratteristica di “avere più tempo per” o “essere più libero da legami per” seguire Gesù. La rinuncia è collegata con il formarsi di un gruppo, di una formazione comunitaria (Gesù e i suoi) che rappresenta in qualche modo l’immagine del Regno cioè l’amore del Padre per il Figlio, che si rende visibile agli uomini. Il fondamento del celibato proposto da Gesù non ha quindi motivazioni solo psicologiche: essere più disponibili alla missione ricevuta, non avere il pensiero della famiglia... Tutto ciò, sebbene importante, non è prioritario.
Non è sfiducia nei confronti delle relazioni umane
A questo proposito scrive Mons. Marini: “Non appare perciò una rinuncia ai legami familiari dovuta a disistima o sfiducia nei confronti delle relazioni umane ed a favore invece di una relazione solo con Dio: la proposta di lasciare la relazione coniugale e le relazioni familiari in genere, mira infatti esplicitamente ad assumere un’ altra relazione interpersonale: quella con lo stesso Signore Gesù, ed anche altre relazioni interpersonali, quelle coi compagni della piccola comunità apostolica innanzitutto, e poi più in generale con i destinatari del Vangelo” (Celibato ecclesiastico e fraternità sacerdotale, 25 aprile 1997, p.6).
Essere donati a tutti
Emerge qui un punto centrale: la rinuncia ad altre relazioni familiari per seguire Gesù “da vicino” si fonda anzitutto sul “vi ho chiamato amici” di Gesù e sulla formazione della comunità di apostoli, immagine visibile dell’Amore di Dio invisibile.
È difficile pensare che quei dodici che sperimentarono un’eccezionale intimità con il Signore, non si siano sentiti chiamati ad imitare la dedizione totale del Maestro e che non abbiano esortato con il loro stesso esempio i successori a fare altrettanto.
Le testimonianze della prima comunità cristiana
Esistono testimonianze esplicite della prima comunità cristiana, dopo la resurrezione di Gesù, in cui il “discorso sulla missione” nel capitolo 10 di Matteo era considerato una specie di codice della “sequela”: “Io vi mando come pecore in mezzo ai lupi... Chi dunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch'io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch'io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli... Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me; chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà”.
San Paolo a proposito del celibato
Queste testimonianze dimostrano come gli insegnamenti di Gesù avevano spinto numerosi a compiere scelte radicali di rinuncia alla famiglia matrimoniale per Lui e per il Vangelo. Allo stesso tempo questa scelta radicale veniva comunque vissuta all’interno di comunità apostoliche in cui le relazioni interpersonali erano vive. Questo è comprovato dal capitolo 7 della prima lettera ai Corinti di San Paolo. Alcuni esponenti della comunità di Corinto avevano interpretato in modo così radicale le parole di Gesù da far sentire a San Paolo il bisogno di correggerli: nel settimo capitolo egli spiega che, sebbene il celibato è una condizione da desiderare nel servizio a Dio, questo non significa che i legami matrimoniali sono da disprezzare. Come non è bene disprezzare le relazioni umane in generale.
Un modo di vivere ricco di relazioni umane
La stessa vita di San Paolo dimostra come egli, benché celibe e totalmente donato alla sua missione apostolica, abbia vissuto intrecciando relazioni profonde con persone determinate. Si può notare come San Paolo abbia sempre agito in “compagnia” con collaboratori e amici molto stretti. Ne sono una prova, tra l’altro, le intestazioni delle sue lettere.
Anche gli Atti degli Apostoli ci presentano un modo di vivere ricco di relazioni umane. Gli apostoli si muovevano in gruppi o in coppie di discepoli. Dove giungevano stabilivano subito una serie di legami contraddistinti da amicizia e familiarità.
Apostolica vivendi forma
Dopo la risurrezione di Gesù, insomma, la rinuncia agli affetti familiari non veniva compiuta come consacrazione esclusiva a Dio o a Cristo per una semplice funzione ministeriale, era invece inserita in quella che da secoli è chiamata “apostolica vivendi forma”. Gesù si è incarnato e ha vissuto in relazione con gli uomini da celibe, chi è chiamato alla sua sequela su questo cammino, è chiamato a vivere la relazione con gli altri “celibi per il regno” e con i destinatari del Vangelo, non in maniera accidentale, ma come fatto determinante della scelta di rinunciare alla relazione coniugale.
Seguire Gesù è un cammino adatto ad ogni battezzato. Ma nel celibato la sequela acquista un particolare senso
Lasciare tutto per seguire Gesù, per cooperare alla sua opera di redenzione, è certamente un modello che si adatta alla vocazione di ciascun battezzato. Ma non si può negare che questo modello abbia uno specifico senso e peso nell’applicazione concreta di coloro che cooperano con il Signore più da vicino, cioè che hanno scelto di abbandonare tutto letteralmente per seguirlo. Anche chi si sposa è chiamato a sguire Gesù in modo radicale, mettendolo al centro di tutte le sue attività, vivendo con piena dedizione il matrimonio e facendo con perfezione il suo lavoro professionale. Ma obiettivamente la sua disponibilità non sarà dello stesso tipo di quella del sacerdote che eserciterà, per così dire, la sua piena dedizione in maniera concretamente più ampia a vantaggio di tutte le anime.
Non una semplice "rinuncia ad altro"
In questa prospettiva ci si rende conto che non è del tutto corretto parlare della scelta celibataria come di una semplice “rinuncia ad altro”. Il celibato apostolico è un’affermazione positiva di una scelta a seguire Gesù nel modo più vicino al suo stesso esempio di vita. Da questo punto di vista non bisogna confondere, come spesso accade, la scelta del celibato per il regno, con una specie di presa di posizione “stoica” che, individuando nei principi superiori un bene maggiore, arriva alla consapevolezza del distacco dall’unione umana matrimoniale, per un’unione più alta con il divino. È invece una situazione vissuta concretamente per il Regno in Gesù, cioè apre a una rete di nuove relazioni profonde, che potremmo definire “apostoliche” che divengono lo specchio visibile dell’amore invisibile di Dio.
L'amore infinito del Padre si fa visibile
Gesù chiama una cerchia ristretta di discepoli ad essere associati intimamente a Lui affinché sia visibile, in questo intimo rapporto, l’amore infinito del Padre per il Figlio e ha voluto che questa “visibilità” si moltiplicasse nel tempo e nello spazio ricreando quell’immagine della Trinità che è la Chiesa: “come tu stesso, o Padre, sei in me ed io in te, e così essi pure siano in noi; onde il mondo creda che tu mi hai mandato... come tu hai mandato me nel mondo, così io ho mandato loro nel mondo” (Gv 17). Il Padre, per farsi conoscere dagli uomini, ha mandato la sua perfetta immagine che è Gesù Cristo, così Cristo stesso offre alla comunità cristiana i “suoi” più intimi come sue icone viventi. Papa Giovanni Paolo II nelle ordinazioni del 14 marzo ’95 definì il sacerdote come “ministro dell’amore divino fra gli uomini”, e prima nell’81 aveva affermato che “il Celibato non è affatto marginale nella vita del sacerdote, dà testimonianza di un amore modellato sull’amore di Cristo”.
Il celibato nel Magistero della Chiesa
Uno dei momenti più importanti della riflessione della Chiesa sul celibato sacerdotale è stato certamente il Sinodo dei Vescovi del 1971. Il Sinodo ripropose il valore del celibato sacerdotale alla luce del contesto storico-missionario della Chiesa. Così come il sacerdozio di Cristo è visto come attività di riunificazione dell’umanità in Dio, così il ruolo dei presbiteri è rendere Cristo presente continuando l’opera degli apostoli. I prototipi dei presbiteri sono i dodici apostoli: essi furono chiamati da Gesù ad una particolare vocazione, a cui sono chiamati oggi i sacerdoti. Perciò il fondamento del celibato venne riaffermato dal Sinodo nel suo duplice aspetto di sequela apostolica di Cristo e di chiamata a partecipare alla sua missione di Pastore Supremo.
Segno della salvezza come realtà storica
Il celibato sacerdotale è il segno che la salvezza è una realtà storica, il sacerdote, infatti, nel servire Dio con cuore indiviso e nel dedicarsi totalmente alle pecorelle, fa capire la presenza di Dio, testimoniando un amore fedele che mostra la fecondità spirituale della nuova legge. Perciò la relazione dei dodici con Cristo è da considerarsi il modello da cui scaturisce la vocazione sacerdotale che si riflette a sua volta nella fraternità dei sacerdoti tra di loro e con il Vescovo.
Il sinodo dei vescovi del '71
Questi insegnamenti furono raccolti dal Sinodo nel testo Il sacerdozio ministeriale. È interessante notare che Papa Paolo VI volle che questo testo fosse pubblicato con i risultati della votazione che furono i seguenti: placet 168, non placet 10, placet iuxta modum 21, abstentiones 3. Il Sinodo insomma ha fatto emergere il valore del celibato sacerdotale come rapporto speciale con il Signore, caratterizzato da incondizionato zelo per le anime e da rapporti fraterni intensi con gli altri sacerdoti e con il Vescovo che sono condizioni essenziali affinché esso sia segno dell’amore di Dio.
Con il Sondo del ’71 si è andato definitivamente risolvendo il tema del celibato sacerdotale, un cammino di riflessione che era iniziato con il Concilio Vaticano II ed era continuato nell’enciclica di Paolo VI Sacerdotalis Coelibatus del ’65.
Il sinodo del '90
Il tema fu poi di nuovo ripreso nel Sinodo del 1990 che avrebbe dovuto trattare esclusivamente della formazione dei sacerdoti ma si decise di riaffermare l’importanza del celibato sacerdotale. Questa ripresa e riaffermazione del principio è riscontrabile nell’esortazione apostolica Pastores dabo vobis di Papa Giovanni Paolo II: “I Padri sinodali hanno espresso con chiarezza e con forza il loro pensiero con un’importante Proposizione, che merita di essere integralmente e letteralmente riferita: Ferma restante la disciplina delle Chiese orientali, il Sinodo, convinto che la castità perfetta nel celibato sacerdotale è un carisma, ricorda ai presbiteri che essa costituisce un dono inestimabile di Dio per la Chiesa e rappresenta un valore profetico per il mondo attuale. Questo Sinodo nuovamente e con forza afferma quanto la Chiesa Latina e alcuni riti orientali richiedono, che cioè il sacerdozio venga conferito solo a quegli uomini che hanno ricevuto il dono della vocazione nella castità celibe (senza pregiudizio della tradizione di alcune Chiese orientali e dei casi particolari di clero uxorato proveniente da conversioni al cattolicesimo...). Il sinodo non vuole lasciare nessun dubbio nella mente di tutti sulla ferma volontà della Chiesa di mantenere la legge che esige il celibato liberamente scelto e perpetuo per i candidati all’ordinazione sacerdotale nel rito latino. Il Sinodo sollecita che il celibato sia presentato e spiegato nella sua piena ricchezza biblica, teologica e spirituale” (n.29).
Il Direttorio per il Ministero e la vita dei presbiteri, della Congregazione per il Clero del 1994
Un altro documento di fondamentale importanza sul tema è il Direttorio per il Ministero e la vita dei presbiteri, della Congregazione per il Clero del 1994. Nel testo si legge “Convinta delle profonde motivazioni teologiche e pastorali che sostengono il rapporto tra celibato e sacerdozio e illuminata dalla testimonianza che ne conferma anche oggi, la validità spirituale ed evangelica ... la Chiesa ha ribadito nel Concilio Vaticano II e ripetutamente nel successivo Magistero Pontificio la ferma volontà di mantenere la legge che esige il celibato liberamente scelto e perpetuo per i candidati all’ordinazione sacerdotale nel rito latino. Il celibato, infatti è un dono che la Chiesa ha ricevuto e vuole custodire, convinta che esso è un bene per sé stessa e per il mondo» (n.57).
L'esempio è Gesù
E poi ancora: «L’esempio é il Signore stesso il quale, andando contro quella che si può considerare la cultura dominante del suo tempo, ha scelto liberamente di vivere celibe. Alla sua sequela i discepoli hanno lasciato tutto per compiere la missione loro affidata. Per tale motivo la Chiesa, fin dai tempi apostolici, ha voluto conservare il dono della continenza perpetua dei chierici e si è orientata a scegliere i candidati all’Ordine sacro tra i celibi (cfr. Ts 2, 15; 1Cor. 7, 5; 9, 5; 1Tim 3, 2.12; 5, 9; Tt 1, 7, 8)” (n.59).
La comunione sacerdotale
Anche in questo documento viene ripreso il tema della comunione sacerdotale: “In forza del sacramento dell’Ordine ciascun sacerdote é unito agli altri membri del presbiterio da particolari vincoli di carità apostolica, di ministero e di fraternità. Egli, infatti, è inserito nell’Ordo Presbyterorum, costituendo quell’unità che può definirsi una vera famiglia nella quale i legami non vengono dalla carne o dal sangue ma dalla grazia dell’Ordine” (n.25).
La natura del celibato sacerdotale
Da questo esame sia del testo evangelico sia dei documenti che riguardano il Magistero recente, si nota come la riflessione della Chiesa sul celibato, alla luce delle istanze antropologiche contemporanee, abbia portato ad approfondire le ragioni della scelta celibataria in una dimensione più attenta alla storia e alle concrete difficoltà della società moderna. La nozione di celibato è oggi una nozione complessa che descrive una situazione di vita che non è semplicemente riducibile a una rinuncia dell’esperienza matrimoniale, ma è pienamente descritta da un’assunzione di legami di fraternità e amicizia e dall’impegno totale per la comunità dei fedeli, il tutto fondato sul fedele amore a Gesù Cristo. È Lui stesso che ha proposto ai ministri del suo vangelo il celibato all’interno di un contesto comunitario.
La ricchezza del celibato sacerdotale
Vale la pena citare per intero le conclusioni di Mons. Marini nel suo Il celibato ecclesiastico e la fraternità sacerdotale nel Magistero: “La cultura moderna ha contestato in radice il celibato sacerdotale in quanto disumano, perché negatore di una dimensione fondamentale della persona come l’intersoggetività. Il Magistero della Chiesa ha voluto invece ripensare il celibato sacerdotale, mettendone in luce anche gli elementi di intersoggettività: la relazione con il Vescovo, la fraternità sacerdotale e possibilmente la vita comune; il Magistero però non ha tralasciato di richiamare continuamente anche le altre dimensioni: di consacrazione sempre più intima al Signore Gesù e di donazione sempre più libera ai fedeli; la sollecitazione ad un ripensamento più ampio del quadro concettuale relativo al celibato sacerdotale ed in particolare al suo significato apostolico.
Non una semlice assunzione surrettizia del celibato monacale
L’istanza della vita comune per il clero non sarebbe l’assunzione surrettizia di un’istituzione tipicamente monacale, anche se storicamente questo può essersi verificato, ma sarebbe piuttosto il risvolto necessario della scelta del celibato evangelico, in prospettiva apostolica. Se ciò non è stato chiaro del tutto in passato, può essere avvenuto perché la coscienza che si aveva del celibato sacerdotale non si era sufficientemente confrontata con la forma iniziale della vocazione celibataria sacerdotale, ma dipendeva ancora troppo da mentalità esterne al dato cristiano. Occorrerebbe però ricordare come nei primi secoli il ministero presbiterale era vissuto come realtà collegiale, il che non poteva che favorire il sorgere di una vita comune, attorno al vescovo, di presbiteri non sposati (Sant’Agostino ed altri). Tale collegialità venne poi sempre più disgregandosi, dando luogo a forme di vita sacerdotale completamente isolate; si comprende allora perché il celibato fu approfondito soprattutto a partire da questa nuova situazione (sottolineatura della motivazione mistica; della motivazione di servizio dei fedeli).
La vita "dedicata" dei sacerdoti
Oggi dunque, a partire dal Concilio Vaticano II, si va riscoprendo la dimensione collegiale del presbiterio. Ciò dovrebbe portare anche ad una riconsiderazione dello stile di vita dei preti (vita in comune) e quindi del senso del celibato, in questa dimensione più comunitaria, che il Magistero ha indicato. I sacerdoti che rinunciano ad una relazione coniugale, lo fanno per seguire il Signore Gesù all’interno di una comunità apostolica, ove «possono realizzare quelle profonde e benefiche relazioni interpersonali», che consentono loro innanzitutto di aprirsi veramente e profondamente al mistero dell’amore del Signore Gesù ed insieme di essere segno trinitario tipico di quella comunione fraterna che Cristo vuole suscitare nel mondo e che nel rapporto appunto di Cristo col Padre ha il suo fondamento ed il suo modello. Nello stesso tempo la partecipazione alla comunione apostolica alimenta in loro quel desiderio di donarsi sempre più al servizio dei fratelli e soprattutto educa in loro atteggiamenti giusti di rispetto e di comprensione, di attenzione e di condivisione, che deve caratterizzare la carità pastorale. Emerge allora sempre più chiaramente il rapporto celibato sacerdozio, nel senso che il celibato sacerdotale è appunto al servizio della missione apostolica; la vita di comunione fraterna, cui esso deve dare luogo, è fondamentale fermento e segno trinitario per i fedeli ed insieme stimolo ed apprendistato alla donazione e ad una capacità di relazione profonda e personale anche nell’apostolato” (pp.129-130).
I sacerdoti "nella" Chiesa e "di fronte" alla Chiesa
L’appello di Gesù a seguirlo e a imitarlo richiede una dedizione radicale che è valida per tutti i battezzati, nessuno escluso. Ma per i sacerdoti questo appello e la conseguente dedizione, hanno un valore aggiunto, come scrisse Giovanni Paolo II nell’esortazione Pastores dabo vobis: “Questa stessa esigenza si ripropone per i sacerdoti, non solo perché sono « nella » Chiesa, ma anche perché sono « di fronte » alla Chiesa, in quanto sono configurati a Cristo Capo e Pastore, abilitati e impegnati al ministero ordinato, vivificati dalla carità pastorale”.
Il sacerdote ministro dell'Eucaristia
C’è un altro aspetto non meno fondamentale per considerare la natura del celibato sacerdotale in tutta la sua ricchezza. Il sacerdote è colui attraverso il quale, nella Chiesa, Gesù può rendersi presente nell’Eucaristia. Gesù si “dà da mangiare” come supremo segno della donazione totale alla sua Chiesa, il sacerdote che è chiamato ad amministrare questo sacramento è anche lui in qualche modo coinvolto in questa donazione radicale. Il Cardinal Castrillon Hoyos, Prefetto della Congregazione per il Clero, ha usato queste parole per sottolineare la connessione tra la vocazione del sacerdote e l’Eucaristia, commentando la lettera del Giovedì Santo 2005 di Giovanni Paolo II ai sacerdoti: “Dalla sua Croce, il Papa addita ad ogni sacerdote l’insondabile dignità, conferitagli dall’Ordinazione, di poter pronunciare le parole della Istituzione del mistero eucaristico in persona Christi, e di ricevere la capacità di trasformare la propria esistenza sacerdotale in un dono radicale per la Chiesa e per l’umanità, vale a dire di assumere una "forma eucaristica". L’Eucaristia, infatti, costituisce il momento culminante nel quale Cristo, nel suo Corpo donato e nel suo Sangue versato per la nostra salvezza, svela il mistero della sua identità ed indica il senso del ministero sacerdotale. Come diceva Sant’Agostino: "Siate ciò che ricevete e ricevete ciò che siete". (Conferenza stampa di presentazione della lettera di Giovanni Paolo II ai sacerdoti per il Giovedì Santo, 18.3.2005)
Un'esistenza donata
La vocazione del sacerdote è quella di vivere un’esistenza donata. Così come Cristo si dona nel pane e nel vino, così il sacerdote, “alter Christus”, deve farsi pane a beneficio di tutta l’umanità. Gesù ha affidato se stesso alla Chiesa attraverso l’Eucaristia, il sacerdote deve seguirlo anche in questo, rimettendo tutta la sua vita alla Chiesa nell’obbedienza al Vescovo, nella dedizione alle anime e nella fraternità apostolica. “Si tratta di una donazione della nostra automomia, anche di quella legittima, - prosegue il Cardinale - di una donazione contro la quale si ribella la cultura attuale che pretende la autorealizzazione della ragione svincolata da ogni limite. Perché l’obbedienza è anche umiltà della intelligenza. Usando una espressione di San Carlo Borromeo, rivolta ai sacerdoti, possiamo anche noi ripetere: "Se così faremo, avremo la forza per generare Cristo in noi e negli altri".
Il sacerdote fa toccare con mano l'amore di Cristo
Il celibato sacerdotale è il modo attraverso cui Gesù chiama i suoi più intimi a testimoniare il suo amore a tutta la comunità umana. Non è quindi solo una rinuncia agli affetti familiari affinché il distacco avvicini più a Dio, anzi. Il celibato in qualche modo potenzia, se ci è concessa l’espressione, la capacità del sacerdote di entrare in relazione con gli altri per far toccare con mano, per rendere visibile e concreto in mezzo al mondo, quell’amore divino del Padre per il Figlio e del Figlio per gli uomini che può manifestarsi nell’amore perfettamente donato del sacerdote.
Il dubbio sul celibato dei sacerdoti nasce solo negli anni '60
Allo stesso tempo le obiezioni e le polemiche hanno continuato a farsi sentire. Quando uscì l’enciclica erano gli anni’60 contraddistinti da un clima sociale saturo di erotismo. Nella mente di molti si era insinuato il dubbio sulla bontà del celibato ecclesiastico. Nacque un dibattito in cui tutti si sentivano autorizzati ad intervenire, a proposito come a sproposito, non esclusi i mass media che alimentarono notevolmente il miraggio che il matrimonio sacerdotale avrebbe dato una svolta alla vita della Chiesa.
Le principali obiezioni che sono state mosse al celibato dei sacerdoti si potrebbero così riassumere: Gesù non lo avrebbe imposto ma solo proposto; le ragioni del celibato vengono spesso interpretate come eccessivo pessimismo verso la “carne”; non tutti gli aspiranti al sacerdozio avrebbero il carisma per vivere il celibato; la sua obbligatorietà è causa di rarefazione nelle vocazioni; il celibato è causa di disordini e infedeltà; il celibato determina una condizione innaturale che danneggia la persona umana. Chi muove queste obiezioni vede il celibato come una costrizione che la Chiesa latina impone ai suoi sacerdoti e così facendo riduce il tutto ad una questione puramente disciplinare che andrebbe ripensata alla luce della mentalità attuale.
Un argomento cruciale per tutti i cristiani, non una semplice questione organizzativa
Questo tipo di obiezioni manifestano come quella del celibato sacerdotale non è una questione “particolare” che riguarda il clero latino. In realtà è un argomento cruciale per tutti i fedeli cattolici e più in generale per tutta l’umanità: infatti nessun cristiano può pensarsi tale senza la Chiesa e di questa Chiesa i sacerdoti sono elementi essenziali.
Accostarsi a questo tema considerandolo un semplice problema di disciplina ecclesiastica, di organizzazione e di regolamento, sarebbe riduttivo. Affrontare la questione rifacendosi esclusivamente ad un’impostazione sociologica, ad un ripensamento alla luce dei cosiddetti “tempi che cambiano” non appare sufficiente per cogliere la complessità di questa pratica ecclesiastica. La posta in gioco è ben più alta: la riflessione sul celibato dei sacerdoti è, a ben vedere, una riflessione sull’argomento più ampio della natura dell’amore umano e del suo rapporto con l’amore divino.
Il Magistero e gli approfondimenti sul significato del celibato
La riflessione del Magistero su questo tema è stata sempre molto attenta ma, negli anni recenti, anche in luogo dei cambiamenti della società e delle differenti sfide del pensiero moderno, ha raggiunto un livello di notevole approfondimento e maturazione.
Questa rinnovata riflessione è indubbiamente stata avviata dal Concilio Vaticano II i cui insegnamenti, come abbiamo accennato, sono stati poi ripresi nell’enciclica Sacerdotalis Coelibatus di Paolo VI. Successivamente il Sinodo dei vescovi del 1971 può essere considerato un momento cruciale che ha definitivamente sancito l’opportunità del celibato sacerdotale aprendo anche ad una ricerca teologica della ricchezza di questa pratica ecclesiastica, ricchezza poi sempre più approfondita dai successivi documenti del Magistero. La Chiesa è tornata ancora in modo approfondito sul tema, nel Sinodo dei Vescovi del 1990. L’esortazione apostolica di Giovanni Paolo II, Pastores dabo vobis, del 1992, che raccoglie gli insegnamenti del Sinodo, rappresenta un ulteriore discernimento e chiarificazione delle motivazioni profonde della scelta celibataria per i sacerdoti della Chiesa cattolica.
Il sacerdote è alter Christus: la verginità di Cristo è il fondamento della verginità del sacerdote
Il Magistero in sintesi ha riconosciuto che il sacerdote non è e non sarà mai un semplice “funzionario”, egli è un alter Christus e vive un’unione speciale con Lui. La verginità di Cristo è il fondamento della verginità del sacerdote: è il cammino sicuro che lo fa a Lui assomigliare in tutto. Il celibato è quindi una componente essenziale della vocazione del sacerdote la cui fonte è Cristo, l’unico a poterne dare il vero significato.
Per avere una corretta visione d’insieme del problema del celibato occorre perciò andare a ricercare quali siano le motivazioni di questa scelta a partire da due grandi fonti: da una parte gli insegnamenti di Gesù nel Vangelo e dall’altra quali sono state le posizioni e i chiarimenti del Magistero recente della Chiesa.
Il celibato nel Vangelo
Il primo dato che bisogna registrare accostandosi al Vangelo è che Gesù non si è sposato, ha svolto la sua predicazione lasciando ogni cosa: il suo villaggio, la sua famiglia, ha scelto volontariamente la povertà, ha vissuto la sua vita “pubblica” accettando l’ospitalità di coloro che gliela offrivano senza avere nulla di proprio. Il punto fondamentale è capire in che termini Egli abbia proposto una scelta del genere ai suoi discepoli.
I momenti principali in cui Gesù parla ai suoi di “distacco dalla famiglia” e dagli affetti terreni per la sua sequela sono: “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (Lc 14,26) oppure “In verità vi dico, non c'è nessuno che abbia lasciato casa o moglie o fratelli o genitori o figli per il regno di Dio,che non riceva molto di più nel tempo presente e la vita eterna nel tempo che verrà” (Lc 18,29). Da questi brani emerge come la chiamata di Gesù aveva il carattere di assolutezza, tanto che la sequela, per cooperare alla missione di Gesù, esigeva dai chiamati la rottura di tutti i legami familiari e quindi anche di quello matrimoniale.
Il significato spirituale della rinuncia al matrimonio
A queste due affermazioni di Gesù se ne aggiunge un’altra: “Vi sono eunuchi che dal seno materno sono stati generati così, e vi sono eunuchi che vi sono stati resi tali dagli uomini, e vi sono eunuchi che vi sono resi tali essi stessi per il regno” (Mt 19,12). Gesù pronuncia queste parole perché qualcuno, non capendo appieno il suo discorso sull’indissolubilità del matrimonio, aveva affermato: “se le cose stanno così non conviene prendere moglie”. È come se Gesù volesse spiegare meglio il significato spirituale della rinuncia al matrimonio. Infatti la parola eunuco è molto forte e sottolinea che la scelta di seguire Gesù nella sua missione (per il regno), può raggiungere un livello tale da avere come effetto rendersi volontariamente “incapaci” di stabilire un legame matrimoniale con qualcun altro.
La formazione della comunità degli apostoli
È da osservare che il motivo del distacco da legami familiari inteso da Gesù, ha una doppia motivazione: “Per stare con Lui e per mandarli a predicare” (Mc 3,14). Cioè la rinuncia ai legami familiari, oltre a creare una disponibilità alla missione di evangelizzare (predicare), portava alla convivenza con Gesù e con altri discepoli (stare con lui). Il servizio del Regno assume quindi l’aspetto di un servizio “fatto insieme”. La proposta della rinuncia ai legami familiari nel testo evangelico non ha solo la caratteristica di “avere più tempo per” o “essere più libero da legami per” seguire Gesù. La rinuncia è collegata con il formarsi di un gruppo, di una formazione comunitaria (Gesù e i suoi) che rappresenta in qualche modo l’immagine del Regno cioè l’amore del Padre per il Figlio, che si rende visibile agli uomini. Il fondamento del celibato proposto da Gesù non ha quindi motivazioni solo psicologiche: essere più disponibili alla missione ricevuta, non avere il pensiero della famiglia... Tutto ciò, sebbene importante, non è prioritario.
Non è sfiducia nei confronti delle relazioni umane
A questo proposito scrive Mons. Marini: “Non appare perciò una rinuncia ai legami familiari dovuta a disistima o sfiducia nei confronti delle relazioni umane ed a favore invece di una relazione solo con Dio: la proposta di lasciare la relazione coniugale e le relazioni familiari in genere, mira infatti esplicitamente ad assumere un’ altra relazione interpersonale: quella con lo stesso Signore Gesù, ed anche altre relazioni interpersonali, quelle coi compagni della piccola comunità apostolica innanzitutto, e poi più in generale con i destinatari del Vangelo” (Celibato ecclesiastico e fraternità sacerdotale, 25 aprile 1997, p.6).
Essere donati a tutti
Emerge qui un punto centrale: la rinuncia ad altre relazioni familiari per seguire Gesù “da vicino” si fonda anzitutto sul “vi ho chiamato amici” di Gesù e sulla formazione della comunità di apostoli, immagine visibile dell’Amore di Dio invisibile.
È difficile pensare che quei dodici che sperimentarono un’eccezionale intimità con il Signore, non si siano sentiti chiamati ad imitare la dedizione totale del Maestro e che non abbiano esortato con il loro stesso esempio i successori a fare altrettanto.
Le testimonianze della prima comunità cristiana
Esistono testimonianze esplicite della prima comunità cristiana, dopo la resurrezione di Gesù, in cui il “discorso sulla missione” nel capitolo 10 di Matteo era considerato una specie di codice della “sequela”: “Io vi mando come pecore in mezzo ai lupi... Chi dunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch'io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch'io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli... Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me; chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà”.
San Paolo a proposito del celibato
Queste testimonianze dimostrano come gli insegnamenti di Gesù avevano spinto numerosi a compiere scelte radicali di rinuncia alla famiglia matrimoniale per Lui e per il Vangelo. Allo stesso tempo questa scelta radicale veniva comunque vissuta all’interno di comunità apostoliche in cui le relazioni interpersonali erano vive. Questo è comprovato dal capitolo 7 della prima lettera ai Corinti di San Paolo. Alcuni esponenti della comunità di Corinto avevano interpretato in modo così radicale le parole di Gesù da far sentire a San Paolo il bisogno di correggerli: nel settimo capitolo egli spiega che, sebbene il celibato è una condizione da desiderare nel servizio a Dio, questo non significa che i legami matrimoniali sono da disprezzare. Come non è bene disprezzare le relazioni umane in generale.
Un modo di vivere ricco di relazioni umane
La stessa vita di San Paolo dimostra come egli, benché celibe e totalmente donato alla sua missione apostolica, abbia vissuto intrecciando relazioni profonde con persone determinate. Si può notare come San Paolo abbia sempre agito in “compagnia” con collaboratori e amici molto stretti. Ne sono una prova, tra l’altro, le intestazioni delle sue lettere.
Anche gli Atti degli Apostoli ci presentano un modo di vivere ricco di relazioni umane. Gli apostoli si muovevano in gruppi o in coppie di discepoli. Dove giungevano stabilivano subito una serie di legami contraddistinti da amicizia e familiarità.
Apostolica vivendi forma
Dopo la risurrezione di Gesù, insomma, la rinuncia agli affetti familiari non veniva compiuta come consacrazione esclusiva a Dio o a Cristo per una semplice funzione ministeriale, era invece inserita in quella che da secoli è chiamata “apostolica vivendi forma”. Gesù si è incarnato e ha vissuto in relazione con gli uomini da celibe, chi è chiamato alla sua sequela su questo cammino, è chiamato a vivere la relazione con gli altri “celibi per il regno” e con i destinatari del Vangelo, non in maniera accidentale, ma come fatto determinante della scelta di rinunciare alla relazione coniugale.
Seguire Gesù è un cammino adatto ad ogni battezzato. Ma nel celibato la sequela acquista un particolare senso
Lasciare tutto per seguire Gesù, per cooperare alla sua opera di redenzione, è certamente un modello che si adatta alla vocazione di ciascun battezzato. Ma non si può negare che questo modello abbia uno specifico senso e peso nell’applicazione concreta di coloro che cooperano con il Signore più da vicino, cioè che hanno scelto di abbandonare tutto letteralmente per seguirlo. Anche chi si sposa è chiamato a sguire Gesù in modo radicale, mettendolo al centro di tutte le sue attività, vivendo con piena dedizione il matrimonio e facendo con perfezione il suo lavoro professionale. Ma obiettivamente la sua disponibilità non sarà dello stesso tipo di quella del sacerdote che eserciterà, per così dire, la sua piena dedizione in maniera concretamente più ampia a vantaggio di tutte le anime.
Non una semplice "rinuncia ad altro"
In questa prospettiva ci si rende conto che non è del tutto corretto parlare della scelta celibataria come di una semplice “rinuncia ad altro”. Il celibato apostolico è un’affermazione positiva di una scelta a seguire Gesù nel modo più vicino al suo stesso esempio di vita. Da questo punto di vista non bisogna confondere, come spesso accade, la scelta del celibato per il regno, con una specie di presa di posizione “stoica” che, individuando nei principi superiori un bene maggiore, arriva alla consapevolezza del distacco dall’unione umana matrimoniale, per un’unione più alta con il divino. È invece una situazione vissuta concretamente per il Regno in Gesù, cioè apre a una rete di nuove relazioni profonde, che potremmo definire “apostoliche” che divengono lo specchio visibile dell’amore invisibile di Dio.
L'amore infinito del Padre si fa visibile
Gesù chiama una cerchia ristretta di discepoli ad essere associati intimamente a Lui affinché sia visibile, in questo intimo rapporto, l’amore infinito del Padre per il Figlio e ha voluto che questa “visibilità” si moltiplicasse nel tempo e nello spazio ricreando quell’immagine della Trinità che è la Chiesa: “come tu stesso, o Padre, sei in me ed io in te, e così essi pure siano in noi; onde il mondo creda che tu mi hai mandato... come tu hai mandato me nel mondo, così io ho mandato loro nel mondo” (Gv 17). Il Padre, per farsi conoscere dagli uomini, ha mandato la sua perfetta immagine che è Gesù Cristo, così Cristo stesso offre alla comunità cristiana i “suoi” più intimi come sue icone viventi. Papa Giovanni Paolo II nelle ordinazioni del 14 marzo ’95 definì il sacerdote come “ministro dell’amore divino fra gli uomini”, e prima nell’81 aveva affermato che “il Celibato non è affatto marginale nella vita del sacerdote, dà testimonianza di un amore modellato sull’amore di Cristo”.
Il celibato nel Magistero della Chiesa
Uno dei momenti più importanti della riflessione della Chiesa sul celibato sacerdotale è stato certamente il Sinodo dei Vescovi del 1971. Il Sinodo ripropose il valore del celibato sacerdotale alla luce del contesto storico-missionario della Chiesa. Così come il sacerdozio di Cristo è visto come attività di riunificazione dell’umanità in Dio, così il ruolo dei presbiteri è rendere Cristo presente continuando l’opera degli apostoli. I prototipi dei presbiteri sono i dodici apostoli: essi furono chiamati da Gesù ad una particolare vocazione, a cui sono chiamati oggi i sacerdoti. Perciò il fondamento del celibato venne riaffermato dal Sinodo nel suo duplice aspetto di sequela apostolica di Cristo e di chiamata a partecipare alla sua missione di Pastore Supremo.
Segno della salvezza come realtà storica
Il celibato sacerdotale è il segno che la salvezza è una realtà storica, il sacerdote, infatti, nel servire Dio con cuore indiviso e nel dedicarsi totalmente alle pecorelle, fa capire la presenza di Dio, testimoniando un amore fedele che mostra la fecondità spirituale della nuova legge. Perciò la relazione dei dodici con Cristo è da considerarsi il modello da cui scaturisce la vocazione sacerdotale che si riflette a sua volta nella fraternità dei sacerdoti tra di loro e con il Vescovo.
Il sinodo dei vescovi del '71
Questi insegnamenti furono raccolti dal Sinodo nel testo Il sacerdozio ministeriale. È interessante notare che Papa Paolo VI volle che questo testo fosse pubblicato con i risultati della votazione che furono i seguenti: placet 168, non placet 10, placet iuxta modum 21, abstentiones 3. Il Sinodo insomma ha fatto emergere il valore del celibato sacerdotale come rapporto speciale con il Signore, caratterizzato da incondizionato zelo per le anime e da rapporti fraterni intensi con gli altri sacerdoti e con il Vescovo che sono condizioni essenziali affinché esso sia segno dell’amore di Dio.
Con il Sondo del ’71 si è andato definitivamente risolvendo il tema del celibato sacerdotale, un cammino di riflessione che era iniziato con il Concilio Vaticano II ed era continuato nell’enciclica di Paolo VI Sacerdotalis Coelibatus del ’65.
Il sinodo del '90
Il tema fu poi di nuovo ripreso nel Sinodo del 1990 che avrebbe dovuto trattare esclusivamente della formazione dei sacerdoti ma si decise di riaffermare l’importanza del celibato sacerdotale. Questa ripresa e riaffermazione del principio è riscontrabile nell’esortazione apostolica Pastores dabo vobis di Papa Giovanni Paolo II: “I Padri sinodali hanno espresso con chiarezza e con forza il loro pensiero con un’importante Proposizione, che merita di essere integralmente e letteralmente riferita: Ferma restante la disciplina delle Chiese orientali, il Sinodo, convinto che la castità perfetta nel celibato sacerdotale è un carisma, ricorda ai presbiteri che essa costituisce un dono inestimabile di Dio per la Chiesa e rappresenta un valore profetico per il mondo attuale. Questo Sinodo nuovamente e con forza afferma quanto la Chiesa Latina e alcuni riti orientali richiedono, che cioè il sacerdozio venga conferito solo a quegli uomini che hanno ricevuto il dono della vocazione nella castità celibe (senza pregiudizio della tradizione di alcune Chiese orientali e dei casi particolari di clero uxorato proveniente da conversioni al cattolicesimo...). Il sinodo non vuole lasciare nessun dubbio nella mente di tutti sulla ferma volontà della Chiesa di mantenere la legge che esige il celibato liberamente scelto e perpetuo per i candidati all’ordinazione sacerdotale nel rito latino. Il Sinodo sollecita che il celibato sia presentato e spiegato nella sua piena ricchezza biblica, teologica e spirituale” (n.29).
Il Direttorio per il Ministero e la vita dei presbiteri, della Congregazione per il Clero del 1994
Un altro documento di fondamentale importanza sul tema è il Direttorio per il Ministero e la vita dei presbiteri, della Congregazione per il Clero del 1994. Nel testo si legge “Convinta delle profonde motivazioni teologiche e pastorali che sostengono il rapporto tra celibato e sacerdozio e illuminata dalla testimonianza che ne conferma anche oggi, la validità spirituale ed evangelica ... la Chiesa ha ribadito nel Concilio Vaticano II e ripetutamente nel successivo Magistero Pontificio la ferma volontà di mantenere la legge che esige il celibato liberamente scelto e perpetuo per i candidati all’ordinazione sacerdotale nel rito latino. Il celibato, infatti è un dono che la Chiesa ha ricevuto e vuole custodire, convinta che esso è un bene per sé stessa e per il mondo» (n.57).
L'esempio è Gesù
E poi ancora: «L’esempio é il Signore stesso il quale, andando contro quella che si può considerare la cultura dominante del suo tempo, ha scelto liberamente di vivere celibe. Alla sua sequela i discepoli hanno lasciato tutto per compiere la missione loro affidata. Per tale motivo la Chiesa, fin dai tempi apostolici, ha voluto conservare il dono della continenza perpetua dei chierici e si è orientata a scegliere i candidati all’Ordine sacro tra i celibi (cfr. Ts 2, 15; 1Cor. 7, 5; 9, 5; 1Tim 3, 2.12; 5, 9; Tt 1, 7, 8)” (n.59).
La comunione sacerdotale
Anche in questo documento viene ripreso il tema della comunione sacerdotale: “In forza del sacramento dell’Ordine ciascun sacerdote é unito agli altri membri del presbiterio da particolari vincoli di carità apostolica, di ministero e di fraternità. Egli, infatti, è inserito nell’Ordo Presbyterorum, costituendo quell’unità che può definirsi una vera famiglia nella quale i legami non vengono dalla carne o dal sangue ma dalla grazia dell’Ordine” (n.25).
La natura del celibato sacerdotale
Da questo esame sia del testo evangelico sia dei documenti che riguardano il Magistero recente, si nota come la riflessione della Chiesa sul celibato, alla luce delle istanze antropologiche contemporanee, abbia portato ad approfondire le ragioni della scelta celibataria in una dimensione più attenta alla storia e alle concrete difficoltà della società moderna. La nozione di celibato è oggi una nozione complessa che descrive una situazione di vita che non è semplicemente riducibile a una rinuncia dell’esperienza matrimoniale, ma è pienamente descritta da un’assunzione di legami di fraternità e amicizia e dall’impegno totale per la comunità dei fedeli, il tutto fondato sul fedele amore a Gesù Cristo. È Lui stesso che ha proposto ai ministri del suo vangelo il celibato all’interno di un contesto comunitario.
La ricchezza del celibato sacerdotale
Vale la pena citare per intero le conclusioni di Mons. Marini nel suo Il celibato ecclesiastico e la fraternità sacerdotale nel Magistero: “La cultura moderna ha contestato in radice il celibato sacerdotale in quanto disumano, perché negatore di una dimensione fondamentale della persona come l’intersoggetività. Il Magistero della Chiesa ha voluto invece ripensare il celibato sacerdotale, mettendone in luce anche gli elementi di intersoggettività: la relazione con il Vescovo, la fraternità sacerdotale e possibilmente la vita comune; il Magistero però non ha tralasciato di richiamare continuamente anche le altre dimensioni: di consacrazione sempre più intima al Signore Gesù e di donazione sempre più libera ai fedeli; la sollecitazione ad un ripensamento più ampio del quadro concettuale relativo al celibato sacerdotale ed in particolare al suo significato apostolico.
Non una semlice assunzione surrettizia del celibato monacale
L’istanza della vita comune per il clero non sarebbe l’assunzione surrettizia di un’istituzione tipicamente monacale, anche se storicamente questo può essersi verificato, ma sarebbe piuttosto il risvolto necessario della scelta del celibato evangelico, in prospettiva apostolica. Se ciò non è stato chiaro del tutto in passato, può essere avvenuto perché la coscienza che si aveva del celibato sacerdotale non si era sufficientemente confrontata con la forma iniziale della vocazione celibataria sacerdotale, ma dipendeva ancora troppo da mentalità esterne al dato cristiano. Occorrerebbe però ricordare come nei primi secoli il ministero presbiterale era vissuto come realtà collegiale, il che non poteva che favorire il sorgere di una vita comune, attorno al vescovo, di presbiteri non sposati (Sant’Agostino ed altri). Tale collegialità venne poi sempre più disgregandosi, dando luogo a forme di vita sacerdotale completamente isolate; si comprende allora perché il celibato fu approfondito soprattutto a partire da questa nuova situazione (sottolineatura della motivazione mistica; della motivazione di servizio dei fedeli).
La vita "dedicata" dei sacerdoti
Oggi dunque, a partire dal Concilio Vaticano II, si va riscoprendo la dimensione collegiale del presbiterio. Ciò dovrebbe portare anche ad una riconsiderazione dello stile di vita dei preti (vita in comune) e quindi del senso del celibato, in questa dimensione più comunitaria, che il Magistero ha indicato. I sacerdoti che rinunciano ad una relazione coniugale, lo fanno per seguire il Signore Gesù all’interno di una comunità apostolica, ove «possono realizzare quelle profonde e benefiche relazioni interpersonali», che consentono loro innanzitutto di aprirsi veramente e profondamente al mistero dell’amore del Signore Gesù ed insieme di essere segno trinitario tipico di quella comunione fraterna che Cristo vuole suscitare nel mondo e che nel rapporto appunto di Cristo col Padre ha il suo fondamento ed il suo modello. Nello stesso tempo la partecipazione alla comunione apostolica alimenta in loro quel desiderio di donarsi sempre più al servizio dei fratelli e soprattutto educa in loro atteggiamenti giusti di rispetto e di comprensione, di attenzione e di condivisione, che deve caratterizzare la carità pastorale. Emerge allora sempre più chiaramente il rapporto celibato sacerdozio, nel senso che il celibato sacerdotale è appunto al servizio della missione apostolica; la vita di comunione fraterna, cui esso deve dare luogo, è fondamentale fermento e segno trinitario per i fedeli ed insieme stimolo ed apprendistato alla donazione e ad una capacità di relazione profonda e personale anche nell’apostolato” (pp.129-130).
I sacerdoti "nella" Chiesa e "di fronte" alla Chiesa
L’appello di Gesù a seguirlo e a imitarlo richiede una dedizione radicale che è valida per tutti i battezzati, nessuno escluso. Ma per i sacerdoti questo appello e la conseguente dedizione, hanno un valore aggiunto, come scrisse Giovanni Paolo II nell’esortazione Pastores dabo vobis: “Questa stessa esigenza si ripropone per i sacerdoti, non solo perché sono « nella » Chiesa, ma anche perché sono « di fronte » alla Chiesa, in quanto sono configurati a Cristo Capo e Pastore, abilitati e impegnati al ministero ordinato, vivificati dalla carità pastorale”.
Il sacerdote ministro dell'Eucaristia
C’è un altro aspetto non meno fondamentale per considerare la natura del celibato sacerdotale in tutta la sua ricchezza. Il sacerdote è colui attraverso il quale, nella Chiesa, Gesù può rendersi presente nell’Eucaristia. Gesù si “dà da mangiare” come supremo segno della donazione totale alla sua Chiesa, il sacerdote che è chiamato ad amministrare questo sacramento è anche lui in qualche modo coinvolto in questa donazione radicale. Il Cardinal Castrillon Hoyos, Prefetto della Congregazione per il Clero, ha usato queste parole per sottolineare la connessione tra la vocazione del sacerdote e l’Eucaristia, commentando la lettera del Giovedì Santo 2005 di Giovanni Paolo II ai sacerdoti: “Dalla sua Croce, il Papa addita ad ogni sacerdote l’insondabile dignità, conferitagli dall’Ordinazione, di poter pronunciare le parole della Istituzione del mistero eucaristico in persona Christi, e di ricevere la capacità di trasformare la propria esistenza sacerdotale in un dono radicale per la Chiesa e per l’umanità, vale a dire di assumere una "forma eucaristica". L’Eucaristia, infatti, costituisce il momento culminante nel quale Cristo, nel suo Corpo donato e nel suo Sangue versato per la nostra salvezza, svela il mistero della sua identità ed indica il senso del ministero sacerdotale. Come diceva Sant’Agostino: "Siate ciò che ricevete e ricevete ciò che siete". (Conferenza stampa di presentazione della lettera di Giovanni Paolo II ai sacerdoti per il Giovedì Santo, 18.3.2005)
Un'esistenza donata
La vocazione del sacerdote è quella di vivere un’esistenza donata. Così come Cristo si dona nel pane e nel vino, così il sacerdote, “alter Christus”, deve farsi pane a beneficio di tutta l’umanità. Gesù ha affidato se stesso alla Chiesa attraverso l’Eucaristia, il sacerdote deve seguirlo anche in questo, rimettendo tutta la sua vita alla Chiesa nell’obbedienza al Vescovo, nella dedizione alle anime e nella fraternità apostolica. “Si tratta di una donazione della nostra automomia, anche di quella legittima, - prosegue il Cardinale - di una donazione contro la quale si ribella la cultura attuale che pretende la autorealizzazione della ragione svincolata da ogni limite. Perché l’obbedienza è anche umiltà della intelligenza. Usando una espressione di San Carlo Borromeo, rivolta ai sacerdoti, possiamo anche noi ripetere: "Se così faremo, avremo la forza per generare Cristo in noi e negli altri".
Il sacerdote fa toccare con mano l'amore di Cristo
Il celibato sacerdotale è il modo attraverso cui Gesù chiama i suoi più intimi a testimoniare il suo amore a tutta la comunità umana. Non è quindi solo una rinuncia agli affetti familiari affinché il distacco avvicini più a Dio, anzi. Il celibato in qualche modo potenzia, se ci è concessa l’espressione, la capacità del sacerdote di entrare in relazione con gli altri per far toccare con mano, per rendere visibile e concreto in mezzo al mondo, quell’amore divino del Padre per il Figlio e del Figlio per gli uomini che può manifestarsi nell’amore perfettamente donato del sacerdote.
Tags: