Università italiana: pochi laureati e ancor meno assunzioni

di Raffaele Buscemi, 26 novembre 2015

Non sembrano essere andati a buon fine i piani che vollero, nel 2001, la riforma dell'università italiana che passò dal "vecchio" al "nuovo ordinamento". Scopo di quella riforma era infatti rispondere all'esigenza di adeguamento di alcuni parametri italiani a quelli europei. Soprattutto sul numero di laureati e sul loro livello occupazionale. 

Il 24 novembre è stato pubblicato il rapporto annuale dell’OCSE Education at a Glance, che raccoglie ed elabora i principali indicatori statistici relativi all’istruzione nei paesi membri dell’organizzazione. Si tratta di una delle fonti più autorevoli e accurate per impostare comparazioni tra i paesi sviluppati sull’argomento, essendo diffuso da un organismo che da decenni si sforza di guardare al problema educativo secondo la prospettiva fondamentale del suo contributo all’innesco e al consolidamento dello sviluppo economico.

I dati esposti confermano per l’Italia una situazione piuttosto complicata soprattutto nel campo dell’istruzione superiore e dell’università. Ci troviamo attualmente in un’economia globale in cui la conservazione dello status di paese sviluppato passa soprattutto attraverso l’elevata qualità delle competenze della propria forza-lavoro e la capacità di “vendere” saperi e tecniche destinate a garantire elevato valore aggiunto.  

Nonostante questo, in Italia, ben meno di metà dei neodiplomati prosegue gli studi, e solo un terzo li conclude con successo. Si tratta di valori piuttosto lontani sia dalla media OCSE che da quella degli altri paesi europei. I dati più critici si concentrano soprattutto sulle lauree di primo livello e sugli istituti superiori non accademici, sostanzialmente non ancora decollati, a dimostrazione del fatto che lo sforzo di adeguare le strutture universitarie a standard più avanzati attraverso l’esecuzione del Bologna Process non ha dato i frutti sperati, e il sistema rimane ancorato all’idea di una formazione universitaria “lunga” e selettiva, che possa di per sé “contare qualcosa” sul mercato per il solo fattore "Titolo di studio".

Questo auspicio non trova però riscontri di fronte alla relativa difficoltà dei laureati a inserirsi con fluidità nel mondo del lavoro: solo il 62% degli italiani tra i 25 e i 34 anni dotati di un titolo di studio superiore al diploma di scuola secondaria lavora. Con una riduzione costante negli ultimi anni, e soprattutto a fronte di percentuali più alte anche di 20 punti, e sostanzialmente costanti in questi anni di crisi, di Francia e Germania.

Nella Penisola solo lo 0,2% degli studenti si è iscritta a un ciclo terziario breve professionalizzante (questa la dizione tecnica) contro l'11% Ocse. Se si passa alla laurea di primo livello la percentuale italiana si ferma al 28% contro il 36% Ocse. La situazione cambia per la laurea specialistica con un 20% italiano contro il 17% Ocse, indicativo forse del fatto che da noi, comunque, la “triennale non basta”. 

Nel 2014, in Italia, solo il 17% degli adulti (25-64 anni) era titolare di una laurea, percentuale simile a quelle del Brasile, del Messico e della Turchia. In questi tre Paesi la differenza tra i redditi dei laureati e quelli degli adulti che hanno conseguito solo un diploma è più alta rispetto alla media dell'Ocse (160%), in Italia i redditi dei laureati sono superiori solo del 43%.

Mentre dall'Italia fuggono sempre più cervelli le università italiane attirano pochi studenti stranieri. Nel 2013, meno di 16.000 studenti stranieri degli altri 34 Paesi risultava iscritto a un ateneo italiano (il gruppo più rilevante proveniva dalla Grecia) rispetto ai 46.000 studenti stranieri in Francia e ai 68.000 in Germania. E il calcolo sovrastima le cifre degli studenti internazionali che vengono da noi perché l'Italia conta anche gli immigrati permanenti mentre la Francia e la Germania riportano solo il numero di studenti che si sono trasferiti all'estero con lo specifico scopo di studiare.